Pazienza

pa-zièn-za

Significato Disposizione interiore di chi resiste a qualcosa di difficile o sgradevole, e lo fa a lungo, con serenità e dominando la reazione; precisione meticolosa; abito senza maniche e aperto ai lati tipico di alcuni ordini o congregazioni

Etimologia dal latino patièntia, derivato di pàtiens, ‘che sopporta’, participio presente di pati ‘sopportare’, ma anche ‘accettare’ e ‘soffrire’.

Il fatto che dal verbo latino pati si sia sviluppato anche il nostro patire, e che certe immagini di passione, come quella di Cristo, siano immagini di sofferenza, non deve farci correre sghignazzando amaramente verso la conclusione che la pazienza è la capacità di sopportare una sofferenza. La questione linguistica e interiore è più sottile e complessa, e molto più saggia.

Il verbo latino pati, a dispetto dell’aspetto dimesso, giganteggia. A sentire chi ha studiato il problema irrisolto della sua origine, i suoi significati nucleari sono quelli di ‘fare esperienza, subire’ — ricordiamo che lo stesso ‘subire’ è letteralmente un ‘passare sotto’. Che pieghe, che accezioni prende? Dal sostenere al resistere, dall’accettare al soffrire, dall’essere in un certo stato d’animo o condizione fino al permettere e al concedere, e ancora al… vivere.

Il ‘sopportare’ che leggiamo nelle più scarne traduzioni del pati non è il nostro sopportare sbuffante e malmostoso. È una forma del sussistere, di quella misura del resistere connaturato alla solidità della vita. Ed è tanto curioso quanto eloquente che patientia derivi da patiens: l’inclinazione — ma diciamo pure la virtù, sia dei forti o no — procede dall’esempio di chi la mostra. Una minuzia che (concediamoci ancora una volta questo piccolo lusso di immaginazione ancestrale) ci fa intuire in uno scorcio fulmineo quali persone — tutte nonne e nonni proprio nostri, con solo un mannello di bis- davanti — abbiano letteralmente ispirato la pazienza.

Così otteniamo la pazienza: la disposizione interiore di chi resiste a qualcosa di difficile, di sgradevole, e lo fa a lungo, con serenità e dominando la reazione. Ma cerchiamo di mappare la zona più problematica delle sfumature di questo atteggiamento: che differenza c’è fra pazienza e tolleranza?

È davvero una sottigliezza davvero capillare, che si gioca palmo a palmo, frase per frase. Ma forse possiamo dire che la tolleranza implica un riconoscimento. Quando io porto pazienza (porto la capacità di reggere, curioso) posso avere un perfetto giudizio riguardo al disagio e al dolore da cui dobbiamo passare; ho pazienza perché così è la vita. Sorreggo con una schiena fatta per sorreggere. La tolleranza richiede un certo riconoscimento, l’alleggerimento è operato da una digestione: tu tolleri le mie asperità integrandole in un rapporto — ed è curioso come anche la tolleranza ai famaci, la riduzione progressiva della loro efficacia, si muova in questo paradigma.

Quindi posso parlare della pazienza con cui insegniamo qualcosa di difficile a chi amiamo, della pazienza che serve nella fila interminabile, o nella notte senza sonno, della pazienza degli alberi che attendono la pioggia. La pazienza non abbraccia, si rimbocca le maniche sapendo che è così. È, piuttosto, realismo e accettazione — che prende anche la veste della precisione certosina, aliena alla fretta, come quella di un intarsio che dev’essere stato un gran lavoro di pazienza (mica c’è niente da tollerare).

Ci sarebbe da aggiungere che ‘pazienza’ è anche il nome, di matrice scherzosa, di un risicato abito di alcuni ordini o congregazioni religiose, senza maniche e aperto ai lati, e che nelle nostre frasi può anche avere un valore concessivo — ma pazienza se li nominiamo appena così: abbiamo capito quel c’era da capire.

(Dovevano essere gente ganza, quelle nonne e quei nonni.)

Parola pubblicata il 13 Novembre 2025