Etimologia da pompa, voce dotta recuperata dal latino pompa, prestito dal greco pompé ‘corteggio, processione, parata’, ma letteralmente ‘invio’, da pémpo ‘inviare’.
Che parola potente! È piuttosto ricercata, ma di quella ricercatezza pronta, calzante, che sorprende piacevolmente e senza spiazzare — mentre d’altra parte riempie la bocca con un suono gonfio già da sé evocativo, quasi caricaturale. Successo espressivo assicurato.
Il pomposo nasce dalla pompa, ma non intesa come macchina che sposta fluidi: questa trae il suo nome dal neerlandese pompe, che ha una probabile origine onomatopeica ed è attestato alla metà del Quattrocento. La pompa che ci interessa è ben più antica — quella che ci resta soprattutto in espressioni cristallizzate, dalle pompe funebri alla pompa magna.
Il latino ha preso in prestito il greco pompé, il corteggio, la processione, la parata — letteralmente l’invio, da pémpo ‘inviare’. Questi significati concreti si astraggono in quello di magnificenza. E tale è la pompa: l’apparato, la dimostrazione di magnificenza che si mette in moto per celebrazioni pubbliche o private improntate alla grandiosità sfarzosa — etimologicamente, secondo la sua natura di invio, di spedizione, come con un intento di rappresentanza. Si può parlare della pompa con cui viene sempre celebrato il patrono al paesello, dell’opportunità di pompe strabilianti in tempi di austerità, della pretenziosa pompa di certe feste di laurea.
Capiamo bene che il pomposo è fastoso, ma con un taglio che pone in evidenza tratti psicologici di appariscenza, di sfoggio ostentato, e perciò di sfarzo che arriva liscio liscio all’altezzoso. C’è enfasi, c’è boria, nel pomposo — che si stacca dalle celebrazioni, attagliandosi a versatilità maggiori.
Può essere pomposo un modo ampolloso e ridondante di parlare, come quello del collega presuntuoso che cerca sempre di distinguersi per levatura, può essere pomposo un atteggiamento di alterigia gonfia e supponente, come quello della cliente adirata per non aver avuto trattamenti speciali, e pomposo un portamento che affetta solennità, come quello della giunta comunale che celebra l’ospite di riguardo e si impantana in luoghi comuni sussiegosi.
Tanto forte è questa parola che anche se il riferimento originario alla pompa (vista la desuetudine di questa parola) non è più trasparente, l’impatto non ne risente.
Ah, c’è chi si domanderà se il pompelmo c’entri qualcosa — sembra ci sia una sovrapposizione fra radici, no? No. Anche qui abbiamo un prestito neerlandese, ma derivato da lingue del sud-est asiatico, dove i Paesi Bassi hanno avuto lungamente grandi interessi — forse dal nome pampalimasu che ha in lingua tamil.
Che parola potente! È piuttosto ricercata, ma di quella ricercatezza pronta, calzante, che sorprende piacevolmente e senza spiazzare — mentre d’altra parte riempie la bocca con un suono gonfio già da sé evocativo, quasi caricaturale. Successo espressivo assicurato.
Il pomposo nasce dalla pompa, ma non intesa come macchina che sposta fluidi: questa trae il suo nome dal neerlandese pompe, che ha una probabile origine onomatopeica ed è attestato alla metà del Quattrocento. La pompa che ci interessa è ben più antica — quella che ci resta soprattutto in espressioni cristallizzate, dalle pompe funebri alla pompa magna.
Il latino ha preso in prestito il greco pompé, il corteggio, la processione, la parata — letteralmente l’invio, da pémpo ‘inviare’. Questi significati concreti si astraggono in quello di magnificenza. E tale è la pompa: l’apparato, la dimostrazione di magnificenza che si mette in moto per celebrazioni pubbliche o private improntate alla grandiosità sfarzosa — etimologicamente, secondo la sua natura di invio, di spedizione, come con un intento di rappresentanza. Si può parlare della pompa con cui viene sempre celebrato il patrono al paesello, dell’opportunità di pompe strabilianti in tempi di austerità, della pretenziosa pompa di certe feste di laurea.
Capiamo bene che il pomposo è fastoso, ma con un taglio che pone in evidenza tratti psicologici di appariscenza, di sfoggio ostentato, e perciò di sfarzo che arriva liscio liscio all’altezzoso. C’è enfasi, c’è boria, nel pomposo — che si stacca dalle celebrazioni, attagliandosi a versatilità maggiori.
Può essere pomposo un modo ampolloso e ridondante di parlare, come quello del collega presuntuoso che cerca sempre di distinguersi per levatura, può essere pomposo un atteggiamento di alterigia gonfia e supponente, come quello della cliente adirata per non aver avuto trattamenti speciali, e pomposo un portamento che affetta solennità, come quello della giunta comunale che celebra l’ospite di riguardo e si impantana in luoghi comuni sussiegosi.
Tanto forte è questa parola che anche se il riferimento originario alla pompa (vista la desuetudine di questa parola) non è più trasparente, l’impatto non ne risente.
Ah, c’è chi si domanderà se il pompelmo c’entri qualcosa — sembra ci sia una sovrapposizione fra radici, no? No. Anche qui abbiamo un prestito neerlandese, ma derivato da lingue del sud-est asiatico, dove i Paesi Bassi hanno avuto lungamente grandi interessi — forse dal nome pampalimasu che ha in lingua tamil.