Randagio

ran-dà-gio

Significato Che vaga senza meta, senza sede fissa, vagante; di animale, senza padrone, fuori dal branco

Etimologia derivato di randa ‘orlo’, voce gotica col medesimo significato.

Arrivano al limitare di una terribile landa sabbiosa, Dante e Virgilio, uscendo dalla selva dei suicidi, che la cerchia, e che a sua volta era cerchiata dal fosso del Flegetonte.

La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa:
quivi fermammo i passi a randa a randa.

‘A randa a randa’ significa sul bordo, sull’orlo. È un uso desueto, anche se da Dante a Pirandello viene usato in maniera ricorrente. In effetti ‘randa’ è stato un termine molto versatile, estremamente vivo nella lingua più quotidiana, finendo per indicare disparati oggetti di lavoro specie secondo la suggestione del moto circolare — dallo strumento muratorio per tracciare archi e cerchi, fino alla vela (il lato verticale, prodiero, è collegato all’albero principale, mentre quello orizzontale all’asta del boma, incernierata alla base allo stesso albero, che la orienta). Quello che ci interessa in maniera particolare è il modo in cui questo nucleo di significato perdura in termini parimenti antichi ma molto più correnti, come il randagio (che è al suo culmine d’uso).

Su questo tratto di mondo — quello della qualità di chi vaga, senza appartenenza — insistono diverse parole, tutte antiche, trecentesche (evidentemente è un tratto che è sempre stato considerato rilevante). Abbiamo il ramingo, poetico e sentimentale, abbiamo l’errante, dal profilo così letterario, il nomade, col suo tratto antropologico, il girovago e il vagabondo, tanto immersi nel sospetto.

Rispetto a questi, il randagio si distingue per un uso particolare che gli si riflette addosso: è attributo dell’animale che non appartiene a nessuno — umano o branco che sia. La più grande massa delle occorrenze di questa parola, di quelle spicciole, resta in questa dimensione — soprattutto contempla cani, gatti randagi, ed è una dimensione più recente, tardo-ottocentesca. Se sentiamo parlare di ‘un randagio’ pensiamo subito a un animale del genere — mentre ad esempio ‘un nomade’ e ‘un vagabondo’ li immaginiamo come umani. In questo riferimento finisce per diventare una parola sbrigativa, dimessa, di asciuttezza quasi tecnica; ma proprio quest’uso informa la speciale connotazione che il randagio ora prende quando si attaglia agli esseri umani.

Se prima non differiva molto dai suoi sinonimi, e senza coloriture si poteva parlare di persone e genti randagie, oggi il randagio ha un che di animalesco, ora prostrato ora forte, ora arruffato ora libero — un che peraltro spesso abbracciato, rivendicato proprio come dura cifra di libertà.

Un ingegno randagio è spettinato e ci pare vada senza costrutto, ma magari ha l’orgoglio d’esser senza padrone; gli anni randagi sono quelli che ho passato buttato un po’ qua un po’ là, senza nemmeno saper bene che fare, seguendo la giornata e ciò che aveva senso; e il suo cuore randagio le fa ricercare avventure sempre nuove, senza una regola che si conviene.

È una parola che si è caratterizzata molto. Mantiene la sua estensione — senza dimora, in viaggio continuo, isolato, imprevedibile, volubile e svagato — e quindi oltre che della gente randagia intorno alla stazione, dell’esistenza randagia dell’amica che lavora da remoto, possiamo parlare di nuvole randagie che si stracciano all’orizzonte, di sentimenti randagi che nemmeno seguiamo, del supplì randagio che è avanzato e passa di vassoio in vassoio per tutta la cena in attesa d’essere scelto. Ma non si determina solo in un vagare, in un errare: è completato dal suo essere sbrancato — tutto all’orlo, giro giro al mondo più civile, stabile e centrato. Davvero una parola di splendida complessità.

Parola pubblicata il 25 Luglio 2023