Etimologia voce dotta, recuperata dal latino sesquipedalis ‘di un piede e mezzo’, composto di sesqui- ‘una volta e mezzo’ e pedalis ‘lungo un piede, simile a un piede’, derivato di pes ‘piede’.
Questa è una delle più celebri, fra le parole che consideriamo ricercate. Il suo uso si fa notare sempre, anche perché ha un modo molto particolare d’essere icastica; però il riferimento originario può essere poco accessibile — per quanto sgorghi da un’osservazione tanto schietta e slanciata.
Iniziamo dividendo questa parola nelle due parti che la compongono, entrambe sorprendenti per motivi diversi. La prima è ‘sesqui-’ un elemento che, si trova annotato, significa ‘una volta e mezzo’. Ha origine da un’espressione non attestata, semis-que, semis è ‘metà’, que è una particella enclitica (vuol dire che non si trova da sola, ma si appoggia a un’altra parola) che significa ‘e’. Insomma, il significato di ‘una volta e mezzo’ si sintetizza efficacemente col solo ‘e mezzo’!
Pedalis invece è un aggettivo, che in italiano in quanto tale non ha avuto successo (come sostantivo invece sì), che ci qualifica fra l’altro ciò che ha la lunghezza di un piede. Ma attenzione! Qui non si parla necessariamente né delle nostre graziose fette né dell’unità di misura di lunghezza chiamata con questo nome, che di luogo in luogo e di epoca in epoca ha avuto entità diverse — quello romano e attico era circa 29,6 cm, quello britannico odierno è circa 30,5 cm, e va detto che per essere piedi sono di una certa importanza, si parla rispettivamente di una 47 e di una 48 di scarpa. Il piede è anche un’unità metrica poetica.
Ma che c’entra il piede con la poesia? Abbiamo l’abitudine di considerare la poesia un’arte da vivere in silenzio nella penombra della nostra linda cameretta, o sotto forma di citazioni estemporanee che scorrono su uno schermo, o come imposizione fra le pagine di un’antologia che con l’attitudine di chi spiega le battute ci spiega che cosa voleva dire davvero l’autore. L’unità ritmica, nella metrica classica, si chiama ‘piede’ perché — ovvio come poche cose al mondo — il ritmo si batte col piede e l’hanno battuto innumere caterve di generazioni prima di noi. Per essere appena un po’ più preciso, nel piede troviamo due o più sillabe, ma soprattutto troviamo l’arsi, cioè il momento forte, il battere (segnato dall’ictus, cioè il ‘colpo’) e la tesi, su cui la voce si smorza.
I piedi metrici hanno nomi diversi a seconda del numero, della durata delle sillabe, del ritmo: ad esempio abbiamo il trocheo, sillaba lunga accentata e sillaba breve, con ritmo discendente; il giambo, sillaba breve e sillaba lunga accentata, con ritmo ascendente; il dattilo, sillaba lunga e due sillabe brevi — che è l’elemento costitutivo del più celebre metro dell’antichità, l’esametro dattilico.
Schema dell’esametro dattilico. Sei piedi, sei dattili, l’accento è sulla prima sillaba di ogni piede. L’ultimo piede è catalettico, ha una sillaba in meno.
Questo esametro è quello con cui è composta l’Eneide, per capirci: Àrma virùmque canò, Troiaè qui prìmus ab òris («Le armi e l’uomo canto, che per primo dalle coste di Troia...», è l’incipit). Fatta questa ricognizione, torniamo sul sesquipedale dicendo che la lunghezza di un piede e mezzo è una lunghezza metrica — e quindi può essere attributo di un parolone che ingombra un piede e mezzo di un verso.
Se c’è una singola occorrenza che ha fatto la differenza nell’associazione fra questo specifico riferimento di lunghezza e il concetto di parolone, che va ben oltre le mere misure, è l’Epistola ai Pisoni di Orazio (meglio nota come Ars Poetica). È un testo pieno, fra l’altro, di acuto buon senso: Orazio afferma che le parole devono adattarsi al genere dell’opera e corrispondere bene ai personaggi e ai loro sentimenti, e con un consiglio sempreverde ci dice che «la cena di Tieste non tollera d'essere narrata con versi di tono familiare», ma anche che «il personaggio della tragedia esprime il dolore con un linguaggio dimesso, come Telefo e Peleo, quando poveri ed esuli abbandonano le parole ampollose e sesquipedali, se gli importa di toccare col lamento il cuore dello spettatore».
Un commento sesquipedale, un articolo sesquipedale, un discorso sesquipedale è lungo, certo, ma anche magniloquente. La grossezza materiale qui si fa altisonanza. Ma non è un’implicazione necessaria e automatica: il sesquipedale può anche essere semplicemente grossissimo. Dopotutto, bello e ricco il riferimento al piede metrico, ma resta anche quello al piede metrologico, quei circa 30 centimetri di lunghezza: quando Catullo, nel suo ameno Carme 97, facendo paragoni di folgorante sconcezza, in riferimento a Aemilius parla di dentis sesquipedalis, questi denti sono denti che s’immaginano di un piede e mezzo, senza riferimenti a lunghezze di parole. Così, anche laddove un mezzo metrino non sia poi una misura esagerata, il sesquipedale si fa enorme. Un titolo sesquipedale in prima pagina, un quadro di dimensioni sesquipedali, una kermesse dalla durata sesquipedale di due settimane, un bavero, una sciarpa sesquipedale, una vittoria, un errore sesquipedale hanno la dimensione del ciclopico e del madornale — con un fuoco stretto sulla lunghezza, fuori misura, che pare non finire.
Anche questa analisi ha finito per diventare sesquipedale: ma ecco l’ultima osservazione, l’ultimo segreto del successo del sesquipedale. È un’autologia. Sesquipedale è un termine tanto rappresentativo perché è esso stesso sesquipedale, in un’autoironia raffinata che indica l’ingombrante e il magniloquente tramite l’ingombrante e il magniloquente. Sarà per questo che fa tanta simpatia.
Questa è una delle più celebri, fra le parole che consideriamo ricercate. Il suo uso si fa notare sempre, anche perché ha un modo molto particolare d’essere icastica; però il riferimento originario può essere poco accessibile — per quanto sgorghi da un’osservazione tanto schietta e slanciata.
Iniziamo dividendo questa parola nelle due parti che la compongono, entrambe sorprendenti per motivi diversi. La prima è ‘sesqui-’ un elemento che, si trova annotato, significa ‘una volta e mezzo’. Ha origine da un’espressione non attestata, semis-que, semis è ‘metà’, que è una particella enclitica (vuol dire che non si trova da sola, ma si appoggia a un’altra parola) che significa ‘e’. Insomma, il significato di ‘una volta e mezzo’ si sintetizza efficacemente col solo ‘e mezzo’!
Pedalis invece è un aggettivo, che in italiano in quanto tale non ha avuto successo (come sostantivo invece sì), che ci qualifica fra l’altro ciò che ha la lunghezza di un piede. Ma attenzione! Qui non si parla necessariamente né delle nostre graziose fette né dell’unità di misura di lunghezza chiamata con questo nome, che di luogo in luogo e di epoca in epoca ha avuto entità diverse — quello romano e attico era circa 29,6 cm, quello britannico odierno è circa 30,5 cm, e va detto che per essere piedi sono di una certa importanza, si parla rispettivamente di una 47 e di una 48 di scarpa. Il piede è anche un’unità metrica poetica.
Ma che c’entra il piede con la poesia? Abbiamo l’abitudine di considerare la poesia un’arte da vivere in silenzio nella penombra della nostra linda cameretta, o sotto forma di citazioni estemporanee che scorrono su uno schermo, o come imposizione fra le pagine di un’antologia che con l’attitudine di chi spiega le battute ci spiega che cosa voleva dire davvero l’autore. L’unità ritmica, nella metrica classica, si chiama ‘piede’ perché — ovvio come poche cose al mondo — il ritmo si batte col piede e l’hanno battuto innumere caterve di generazioni prima di noi. Per essere appena un po’ più preciso, nel piede troviamo due o più sillabe, ma soprattutto troviamo l’arsi, cioè il momento forte, il battere (segnato dall’ictus, cioè il ‘colpo’) e la tesi, su cui la voce si smorza.
I piedi metrici hanno nomi diversi a seconda del numero, della durata delle sillabe, del ritmo: ad esempio abbiamo il trocheo, sillaba lunga accentata e sillaba breve, con ritmo discendente; il giambo, sillaba breve e sillaba lunga accentata, con ritmo ascendente; il dattilo, sillaba lunga e due sillabe brevi — che è l’elemento costitutivo del più celebre metro dell’antichità, l’esametro dattilico.
Schema dell’esametro dattilico. Sei piedi, sei dattili, l’accento è sulla prima sillaba di ogni piede. L’ultimo piede è catalettico, ha una sillaba in meno.
Questo esametro è quello con cui è composta l’Eneide, per capirci: Àrma virùmque canò, Troiaè qui prìmus ab òris («Le armi e l’uomo canto, che per primo dalle coste di Troia...», è l’incipit). Fatta questa ricognizione, torniamo sul sesquipedale dicendo che la lunghezza di un piede e mezzo è una lunghezza metrica — e quindi può essere attributo di un parolone che ingombra un piede e mezzo di un verso.
Se c’è una singola occorrenza che ha fatto la differenza nell’associazione fra questo specifico riferimento di lunghezza e il concetto di parolone, che va ben oltre le mere misure, è l’Epistola ai Pisoni di Orazio (meglio nota come Ars Poetica). È un testo pieno, fra l’altro, di acuto buon senso: Orazio afferma che le parole devono adattarsi al genere dell’opera e corrispondere bene ai personaggi e ai loro sentimenti, e con un consiglio sempreverde ci dice che «la cena di Tieste non tollera d'essere narrata con versi di tono familiare», ma anche che «il personaggio della tragedia esprime il dolore con un linguaggio dimesso, come Telefo e Peleo, quando poveri ed esuli abbandonano le parole ampollose e sesquipedali, se gli importa di toccare col lamento il cuore dello spettatore».
Un commento sesquipedale, un articolo sesquipedale, un discorso sesquipedale è lungo, certo, ma anche magniloquente. La grossezza materiale qui si fa altisonanza. Ma non è un’implicazione necessaria e automatica: il sesquipedale può anche essere semplicemente grossissimo. Dopotutto, bello e ricco il riferimento al piede metrico, ma resta anche quello al piede metrologico, quei circa 30 centimetri di lunghezza: quando Catullo, nel suo ameno Carme 97, facendo paragoni di folgorante sconcezza, in riferimento a Aemilius parla di dentis sesquipedalis, questi denti sono denti che s’immaginano di un piede e mezzo, senza riferimenti a lunghezze di parole. Così, anche laddove un mezzo metrino non sia poi una misura esagerata, il sesquipedale si fa enorme. Un titolo sesquipedale in prima pagina, un quadro di dimensioni sesquipedali, una kermesse dalla durata sesquipedale di due settimane, un bavero, una sciarpa sesquipedale, una vittoria, un errore sesquipedale hanno la dimensione del ciclopico e del madornale — con un fuoco stretto sulla lunghezza, fuori misura, che pare non finire.
Anche questa analisi ha finito per diventare sesquipedale: ma ecco l’ultima osservazione, l’ultimo segreto del successo del sesquipedale. È un’autologia. Sesquipedale è un termine tanto rappresentativo perché è esso stesso sesquipedale, in un’autoironia raffinata che indica l’ingombrante e il magniloquente tramite l’ingombrante e il magniloquente. Sarà per questo che fa tanta simpatia.