SignificatoLuogo designato per il riposo durante un viaggio o una campagna; sosta intermedia e tratto che separa due soste; momento di passaggio
Etimologia attraverso il francese étape, dal medio neerlandese stāpel ‘deposito’.
Anche questa è una parola così discreta e comune che difficilmente ha mai suscitato la nostra attenzione, eccitato la nostra curiosità. Anzi ha proprio un che di dimesso, di un’umiltà che echeggia quella del tappo (di cui non è parente, anche se condividono un’ascendenza germanica). E però racconta qualcosa di importante — anche perché la usiamo davvero tanto.
La tappa è il luogo designato per la sosta durante un viaggio o una campagna — e il tratto di strada che separa due soste. Parliamo delle tappe del Giro d’Italia, delle tappe che facciamo durante il viaggio («sulla via fermiamoci anche a Paestum, è tanto che la voglio vedere!»), delle tappe di un percorso di trekking. Trae questo nome, attraverso il francese, da una lingua che ha dato all’italiano più parole di quello che si possa credere (più di cento), per la maggior parte afferenti alle sfere della marineria, del commercio, della guerra e delle gozzoviglie: il neerlandese, meglio noto come olandese (ma chiamare ‘olandese’ il neerlandese è un po’ come chiamare ‘toscano’ l’italiano). Per la precisione, il francese étape deriva dal medio neerlandese, una fase della lingua antecedente al neerlandese moderno — in particolare dalla voce stāpel, che significa ‘deposito’.
Questo semplice dato ci fa concentrare sul rilievo logistico di questa parola, del concetto intero di ‘tappa’. Di solito la usiamo con una volatilità di pensiero che si fa prendere dal dinamismo del viaggio, e la trasforma in tappe di crescita, tappe di sviluppo, tappe importanti in una storia — tutta volta al percorso che scandisce, quasi pietra miliare che lo misuri. Ma la tappa diventa una misurazione, un fasto da segnare: in sé è un punto d’appoggio per il viaggio, il suo sostegno.
La tappa è sempre una stazione, una sosta, col relativo tratto di corso; ma non ogni stazione, non ogni sosta, non ogni tratto è una tappa. La tappa è il deposito, il luogo in cui si soddisfa un bisogno, in cui avviene un rifornimento, uno scambio, quel momento di passaggio in cui il viaggiare cessa temporaneamente di essere un passare — e non per un contrattempo. Fa parte del respiro dell’andare: è la dose di stare che c’è nell’andare, pilone e campata del ponte. Nella sua umiltà, racconta la vitale discontinuità della vita, che senza tappe non porta da nessuna parte. È di qui che arriviamo alle tappe di uno sviluppo personale o narrativo (o comunque storico) quali punti di evoluzione: è la discontinuità a segnare il passaggio.
Meravigliosa e vasta evoluzione di una parola che si era affacciata in italiano parlando di campagne militari, e che si è allargata a ricoveri e gite, prima di diventare quella metafora, quella dimensione di pensiero che così inconsapevolmente abitiamo.
Anche questa è una parola così discreta e comune che difficilmente ha mai suscitato la nostra attenzione, eccitato la nostra curiosità. Anzi ha proprio un che di dimesso, di un’umiltà che echeggia quella del tappo (di cui non è parente, anche se condividono un’ascendenza germanica). E però racconta qualcosa di importante — anche perché la usiamo davvero tanto.
La tappa è il luogo designato per la sosta durante un viaggio o una campagna — e il tratto di strada che separa due soste. Parliamo delle tappe del Giro d’Italia, delle tappe che facciamo durante il viaggio («sulla via fermiamoci anche a Paestum, è tanto che la voglio vedere!»), delle tappe di un percorso di trekking. Trae questo nome, attraverso il francese, da una lingua che ha dato all’italiano più parole di quello che si possa credere (più di cento), per la maggior parte afferenti alle sfere della marineria, del commercio, della guerra e delle gozzoviglie: il neerlandese, meglio noto come olandese (ma chiamare ‘olandese’ il neerlandese è un po’ come chiamare ‘toscano’ l’italiano). Per la precisione, il francese étape deriva dal medio neerlandese, una fase della lingua antecedente al neerlandese moderno — in particolare dalla voce stāpel, che significa ‘deposito’.
Questo semplice dato ci fa concentrare sul rilievo logistico di questa parola, del concetto intero di ‘tappa’. Di solito la usiamo con una volatilità di pensiero che si fa prendere dal dinamismo del viaggio, e la trasforma in tappe di crescita, tappe di sviluppo, tappe importanti in una storia — tutta volta al percorso che scandisce, quasi pietra miliare che lo misuri. Ma la tappa diventa una misurazione, un fasto da segnare: in sé è un punto d’appoggio per il viaggio, il suo sostegno.
La tappa è sempre una stazione, una sosta, col relativo tratto di corso; ma non ogni stazione, non ogni sosta, non ogni tratto è una tappa. La tappa è il deposito, il luogo in cui si soddisfa un bisogno, in cui avviene un rifornimento, uno scambio, quel momento di passaggio in cui il viaggiare cessa temporaneamente di essere un passare — e non per un contrattempo. Fa parte del respiro dell’andare: è la dose di stare che c’è nell’andare, pilone e campata del ponte. Nella sua umiltà, racconta la vitale discontinuità della vita, che senza tappe non porta da nessuna parte. È di qui che arriviamo alle tappe di uno sviluppo personale o narrativo (o comunque storico) quali punti di evoluzione: è la discontinuità a segnare il passaggio.
Meravigliosa e vasta evoluzione di una parola che si era affacciata in italiano parlando di campagne militari, e che si è allargata a ricoveri e gite, prima di diventare quella metafora, quella dimensione di pensiero che così inconsapevolmente abitiamo.