Passaggio

pas-sàg-gio

Significato Transito, traversata, punto di attraversamento, strappo per un tragitto, mutamento, brano, lancio a qualcuno

Etimologia dall’antico francese passage, che è da passer, che è dal latino passus, propriamente participio passato di pandere ‘stendere, spiegare, aprire’.

Assicuriamo bene i moschettoni perché qui dobbiamo calarci in profondità: e capiamo bene che c’è da scendere, se una parola può avere come significato una carrellata di significati quali transito, traversata, punto di attraversamento, strappo per un tragitto, mutamento, brano, lancio a qualcuno. E il nucleo che cerchiamo è un verbo latino che di per sé non è praticamente passato in italiano, ma ha una progenie molto interessante. Pandere. Scendiamo con ordine.

Come qualche sensibilità non si sarà fatta scappare, il finale in -aggio di questa parola tradisce una sua derivazione francese — in particolare dall’antico francese, è addirittura duecentesca. E non è difficile intuire che passage, derivi da passer cioè ‘passare’. Non è difficile nemmeno intuire che la forma latina da cui deriva (c’è di mezzo una forma orale) si rifà a passus, cioè il passo.

‘Passo’ è una parola strana perché è praticamente invisibile, da quanto è comune. Chi mai si sofferma a pensare alla parola ‘passo’? E questo, anche se popola il nostro immaginario come metro di abilità, movimento (muovere i primi passi, passi da gigante, passi avanti, pari passo e via e via). Nel passo c’è qualcosa di profondamente scontato. E però c’è anche qualcosa di sorprendente.

Passus è il participio passato di pandere. Spiegare, stendere, aprire, spalancare. Dà i natali al passo dell’uva passa, e il fiore appassito è detto così perché avvizzisce come frutta stesa a seccare, e da lui vengono lo spandere, l’espandere e via dicendo.
Ebbene, nel passo c’è un movimento di apertura primo del nostro corpo, l’apertura delle gambe nell’atto di camminare. Può sembrare un punto dappoco; non lo è.

Abbiamo visto quale sia la versatilità del passaggio: testimonia che l’umano, e in particolare il corpo umano, è misura di tutte le cose. Il passaggio delle nuvole in cielo è il loro figurato portar passi attraverso un luogo (appena più direzionato rispetto al passeggio); nel nostro bizzarro e malfermo equilibrio bipede questo moto di passaggio si fa sia di sfuggita, come quando Battiato diceva di noi che siamo solo di passaggio, sia senza soste, senza terra, quando si parla di quanto costa il passaggio in traghetto. E così diventa l’ospitalità in movimento di quando diamo un passaggio.
Ma il passaggio è anche il posto, il punto in cui si passa — pedonale, a livello, obbligato — azione e insieme dove dell’azione.

Ma si continua, in una lettura che è sempre più eloquente, se continuiamo a vederla nella forbice delle gambe: il passaggio è il cambiamento. Spostarsi, portare passi, è mutare. Tanto che un passaggio allo stato liquido, il passaggio dal giorno alla notte, il passaggio d’epoca (fisici, enormi, sovrumani) vengono resi da un nostro movimento. Così come anche i brani, quei momenti di testo, di musica, di cinema che si stendono come falcate (si legge il passo dell’autore), che osserviamo in un fluire di narrazione e suono come passaggi: quante volte diciamo “Questo passaggio mi piace da morire?” (E anche quello è un passaggio.)

Infine, con la solita nostra mente che tiene tutto insieme l’alto e il normale, il mutamento del passaggio delle stagioni e degli astri condivide il nome con il passaggio del calciatore, il passaggio al cestista, del pallone. Ma questo è un passaggio-chiave, che riapre tutti quelli precedenti.

Come due sono i piedi, e da uno si parte e sull’altro si arriva, col passo lanciato attraverso un oltre vuoto senza appoggi, il passaggio è passaggio fra stazioni: due stazioni fisiche, geografiche, astronomiche, diegetiche, esistenziali, conviviali. Di gioco.

Parola pubblicata il 17 Settembre 2021