Virtù

vir-tù

Significato Disposizione morale che induce l’essere umano a perseguire con costanza il bene e a praticarlo; qualità positiva, dote; potere, capacità di determinare un certo effetto

Etimologia voce dotta recuperata dal latino virtus, ‘forza, valore’, da vir ‘uomo’.

Davvero una parola d’altri tempi, a iniziare dall’etimo: il latino vir ‘uomo, maschio’. In origine, quindi, virtù è la qualità propria del maschio – ossia, in tempi rudi e bellicosi, il coraggio, la forza, il valore in battaglia. Più tardi, sollevando un po’ l’occhio dal polveroso agone, fu detta ‘virtù’ qualunque tipo di qualità o dote, specie posseduta a livello di eccellenza (pensiamo al virtuosismo in campo artistico), significato da cui derivò anche quello attualmente prevalente: proprietà attiva di certi oggetti o sostanze, come quando parliamo delle ‘virtù terapeutiche’ di certe piante. In riferimento alle persone, invece – con la verginità, un tempo virtù per antonomasia delle fanciulle perbene, ormai scesa con un certo sollievo dal piedistallo – oggi usiamo questa parola assai di rado e perlopiù in tono scherzoso, ad esempio definendo qualcuno ‘un fiore di virtù’. Ma della virtù che più conta a livello morale – la virtù al singolare, quella intesa come disposizione dell’animo al bene, probità, rettitudine – ormai non parliamo più da tempo. Perché?

Ce lo spiega Alasdair MacIntyre, pensatore scozzese-americano classe 1929, autore di Dopo la virtù (1981): perché non sappiamo più di cosa parliamo, quando parliamo di virtù. In campo morale, infatti, è avvenuta una specie di catastrofe, paragonabile ad uno scenario da romanzo distopico in cui tutti i libri, gli strumenti e i laboratori scientifici siano stati distrutti e si debba ripartire da zero, da analfabeti in fatto di scienza. E così – non in ambito scientifico bensì morale – ci accapigliamo nelle discussioni ma è un dialogo impossibile, perché ciò che possediamo non sono altro che «frammenti di uno schema concettuale, parti ormai prive di quei contesti da cui derivava il loro significato». Ogni confronto, perciò, s’incaglia fatalmente nella constatazione di punti di vista inconciliabili. Ma insomma, che diamine è successo?

MacIntyre, in una foto di Sean O’Connor, tenta di raccapezzarsi.

La catastrofe, secondo MacIntyre, è iniziata tra la fine del Medioevo e l’età moderna con l’abbandono della morale antica, aristotelica; una morale teleologica, fondata su un concetto funzionale di virtù: come per l’arpista la virtù consiste nel suonare bene l’arpa, così per ogni persona essa è ‘vivere bene’, ossia svolgere al meglio ciascuno dei ruoli (membro di una famiglia, cittadino, soldato, filosofo…) in cui consiste la propria vita. La modernità, specie a partire dall’Illuminismo, ripudia tale concezione preferendole un’idea di «uomo come individuo che precede e trascende tutti i ruoli», come se le particolarità e le appartenenze sociali fossero degli accidenti «da cui si deve astrarre per scoprire ‘il vero io’», una sorta di io universale e indeterminato.

Per gl’illuministi, quest’astrazione equivaleva ad una liberazione da legami sociali oppressivi, in nome di una morale razionalmente fondata. Tuttavia, l’individuo astratto non può avere alcuna identità morale, perché «la storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quelle comunità da cui traggo la mia identità». L’idea di sfuggire alle particolarità in nome dell’«uomo in quanto tale» è un'illusione che produce spiacevoli conseguenze: il caos morale, una ‘libertà’ dell’io che è simile alla «libertà dei fantasmi». Per l’individualismo liberale, non c’è e non ci dev’essere una risposta univoca alla domanda ‘come devo vivere?’. Ma in assenza della dimensione teleologica, senza un fine rispetto a cui certe azioni sono virtuose e altre no, la moralità moderna è completamente arbitraria, giacché non si capisce più in rapporto a cosa un particolare giudizio morale sia vero o falso.

Nella modernità il nesso tra virtù, fini e regole morali è paradossalmente ribaltato: anticamente, le virtù erano eccellenze del carattere funzionali a un fine, a un bene socialmente condiviso, in vista del quale si stabilivano le regole; oggi invece partiamo dalla coda, cioè dalle regole: la virtù è vista come disposizione interiore ad obbedire alle norme morali – le quali però, senza uno scopo comune, appaiono ormai fondate sul nulla. Da una parte, siamo come i polinesiani, per i quali i tabù erano il risultato della perdita del contesto in cui erano sorte certe norme, che quindi non erano più comprese; dall’altra, ci troviamo in una situazione simile a quella della crisi dell’Impero romano, quando «uomini e donne di buona volontà» si diedero a costruire nuove forme di comunità per preservare la civiltà e la morale nell'«epoca incipiente di barbarie e di oscurità».

Come possiamo uscirne? Secondo MacIntyre, dobbiamo «restituire intelligibilità» all’etica tornando ad una visione aristotelica, cioè all’idea che le virtù sono inseparabili da «quei rapporti che costituiscono comunità il cui vincolo essenziale è una visione e una comprensione dei valori condivisa da tutti». Già s’intravede qualche barlume di una tale rigenerazione, nella vita di persone comuni che si impegnano a «mettere su e sostenere relazioni familiari e di vicinato, scuole, cliniche, e forme locali di comunità politiche». Per cambiare tutto il sistema, però, servirebbe altro, qualcosa che «stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto».

Ahinoi: ai fini pratici, temiamo che i due si equivalgano.

Parola pubblicata il 21 Novembre 2023

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