> L'evoluzione delle parole

I cambiamenti linguistici in atto — Semplificazione (1/4)

Una miniserie di quattro articoli sulle trasformazioni che sta vivendo la nostra lingua e sulle tensioni di fondo che le determinano.

La lingua, come ogni cosa, cambia continuamente: è un dato di fatto oggettivo, persino ovvio, di cui si occupa una disciplina specifica detta linguistica storica (o diacronica), la quale, quando si concentra sull’origine e l’evoluzione di parole giunte fino a noi da un passato più o meno lontano, prende il nome di etimologia.

Questo cambiamento, tuttavia, è presupposto in genere come compiuto, passato: com’è opinione condivisa che la storiografia richieda una distanza dal proprio oggetto, senza la quale non si fa storia ma cronaca, così i linguisti paiono restii a studiare scientificamente i mutamenti in atto. Per dirla con Lorenzo Renzi (Come cambia la lingua, Bologna, il Mulino, 2012):

La razza dei linguisti decisi a munirsi di microscopio per studiare il breve periodo è molto più rara di quella dei linguisti provvisti di binocolo per guardare ai remoti secoli passati.

Lo studio dei mutamenti attuali riguarda perlopiù i neologismi o i gerghi giovanili, oppure viene inteso in senso ricreativo, come un ameno intermezzo tra gli studi seri, nel quale ci si diverte a censurare più o meno bonariamente mode, tic e malvezzi linguistici correnti.

In questi quattro articoli non si parlerà di piuttosto che, quant’altro e un attimino. Né si citeranno quali esempi di mutamento in atto – come qualche testo recente continua curiosamente a fare – fenomeni vecchi di molti decenni, come il ci anteposto al verbo avere (ci ho/c’ho fame, ci hai/c’hai una moneta?), se non ultracentenari, quali la cosiddetta dislocazione a sinistra (i compiti li faccio domani) e a destra (dove l’hai comprato il motorino?) e la frase scissa (è lui che ha cominciato). L’analisi non verrà neppure scandita secondo le tradizionali partizioni della grammatica: mutamento fonologico, morfologico, sintattico, lessicale.

Invece, ci concentreremo su cambiamenti che abbiamo rilevato non per stigmatizzarli in base al nostro gusto personale (che ci fa detestare il ‘piuttosto che’ disgiuntivo, ma ciò non ha alcuna importanza), bensì tentando di raggrupparli in categorie logico-linguistiche che diano loro organicità e senso. Non c’è né può esserci pretesa di completezza ed esaustività in questo, naturalmente: lo precludono la natura stessa della materia, i limiti spaziali del mezzo e quelli soggettivi di chi lo scrive.


Semplificazione

Affermare che, in generale, una lingua sia più “facile” di un’altra è sempre un azzardo, ma in certi casi il divario nella complessità grammaticale è innegabile. A volte sappiamo anche il perché: se nell’inglese moderno sono scomparsi i generi dei sostantivi nonché quasi tutte le desinenze delle persone nella coniugazione dei verbi, è perché i Vichinghi, che colonizzarono l’Inghilterra a partire dal IX secolo, decisi a non imporre il proprio idioma al popolo conquistato ma nondimeno in difficoltà ad apprendere correttamente il suo, svolsero di fatto un’opera di semplificazione linguistica.

Tutto sommato, forse ci si può spingere ad affermare che l’italiano non è tra le lingue più semplici: nella sua evoluzione dal latino ha perso sì, ad esempio, il sistema dei casi e la quantità vocalica, ma la libertà di posizione ha reso l’accento tonico imprevedibile, e le regole su come apporre quello grafico sono piene di eccezioni e oscurità; senza contare l’aggiunta, rispetto al latino, del modo condizionale nel sistema verbale.

È un dato di fatto che l’italiano finora non sia stato mai una lingua popolare (di popolo), ed il motivo è noto: per secoli, in un’Italia politicamente divisa, fu una lingua unicamente scritta, perlopiù da una ristretta élite di intellettuali. Nel momento dell’unificazione, poco oltre un secolo e mezzo fa, solo il 10% circa della popolazione lo parlava, e per l’alfabetizzazione di massa si è dovuta attendere la diffusione, negli anni Sessanta del secolo scorso, della televisione. Solo allora l’italiano è diventato una lingua davvero viva, e da quel momento, com’è naturale, è iniziato un processo di appropriazione popolare, che inevitabilmente ha assunto i caratteri della semplificazione.

Diversi linguisti hanno riscontrato una naturale tendenza dei parlanti alla semplificazione, riconducibile ad un “principio di economia” o alla “legge del minimo sforzo”. È in virtù di questo principio, ad esempio, che si è verificata l’assimilazione dei nessi consonantici latini pt (septem > sette) e ct (october > ottobre), la caduta delle consonanti occlusive finali (amat > ama) e la sonorizzazione di quelle intervocaliche (precari > pregare). E per lo stesso motivo, oggi, molti parlanti dicono e scrivono *areoplano, *areonautica e *metereologia (dei quali, infatti, è prevista la correzione automatica nei programmi di videoscrittura), ma nessun vocabolario li contempla come forme accettabili al posto di aeroplano, aeronautica e meteorologia, così come è fortemente censurata la forma propio, ancorché attestata sin dal Trecento accanto a proprio (da notare che nello spagnolo contemporaneo propio è l’unica usata).

In altri casi, al contrario, come nota De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia unita, l’essere stato per secoli una lingua essenzialmente solo scritta ha lasciato in eredità all’italiano una «polimorfia morfologica e lessicale»: le varianti si sono conservate perché «non potevano intervenire le tendenze selettive, economiche, operanti in lingue sottoposte a un uso più largo». Ecco così spiegata, ad esempio, la sovrabbondanza di forme verbali come nutro/nutrisco, apparve/apparì/apparse, diedi/detti, soffrii/soffersi e molte altre, che solo negli ultimi decenni, non a caso, è venuta meno (con la scelta ‘economica’, da parte dei parlanti, della prima tra le opzioni citate).

Segni grafici

L’accento grafico, come si è già accennato, è indubbiamente un elemento di complicazione nella scrittura, anche perché serve sia ad indicare la sillaba tonica sia a segnalare il timbro aperto o chiuso delle vocali medie (e, o). La scomodità nel digitare le lettere accentate sulla tastiera dei telefoni cellulari porta spesso all’omissione dell’accento, che finisce per dipendere dai capricci – per difetto o per eccesso – del correttore automatico; e non si tratta, come si potrebbe pensare, di un problema limitato alla scrittura su dispositivi mobili: gli errori ortografici di accentazione sono tra i più frequentemente rilevati negli scritti scolastici. Nel segnalare il timbro vocalico, al contrario, solo il correttore automatico dei programmi di scrittura soccorre ormai la maggior parte degli scriventi, i quali faticano a capire perché l’accento di “cioè” debba essere grave mentre quello di “né” e “perché” acuto (ma questo non è certo un fenomeno recente).

Quanto all’apostrofo, è difficile stabilire se le tendenze in atto siano da considerarsi semplificanti o l’opposto. Di per sé, l’apostrofo è funzionale alla semplificazione fonetica (è più facile pronunciare l’idea che la idea, un’amica che una amica), salvo divenire un fattore di complicazione nel momento in cui il suo uso risulti poco chiaro a una parte consistente di scriventi, dipendendo, in italiano, da una distinzione fra troncamento ed elisione non proprio intuitiva. Perciò, da una parte accade sempre più spesso di osservare, nella scrittura poco sorvegliata, l’omissione dell’apostrofo con l’articolo indeterminativo femminile e casi analoghi (*un avventura, *nessun alternativa); dall’altra, indipendentemente da incertezze sull’uso, si nota un generale regresso nell’impiego dell’apostrofo, anche in quei casi di elisione data come “obbligatoria” dai manuali scolastici: è vieppiù frequente leggere, ad esempio, “la Università”, “a quella epoca”, “della analisi”. La sensazione è di un uso dell’apostrofo sempre più percepito come appartenente al registro informale, forse in analogia con quanto accade in inglese. Oppure, può darsi che la percezione dell’apostrofo come fattore di complicazione a livello grafico prevalga sulla sua funzione semplificatrice a livello fonetico.

Altro segno grafico decisamente in disuso è il trattino. Capita in continuazione di leggere composti non univerbati con omissione del trattino ove di regola andrebbe usato: mina anti uomo, legge truffa, missile terra aria, corso teorico pratico, incontro scontro e così via. E a proposito di univerbazione, assistiamo ultimamente ad una sua avanzata, nello scritto, anche in casi in cui la norma non lo consente: nei testi presenti in rete, negli scritti scolastici e talora persino sui giornali, sempre più di frequente si legge, ad esempio, affianco per a fianco, avvolte per a volte e apposto per a posto. Si tratta evidentemente di un procedimento analogico, quindi semplificativo: se a canto è diventato accanto e a posta apposta, perché non fare lo stesso in casi del tutto simili? Sono in continuo aumento, a scuola e in rete, le richieste sulla liceità dell’univerbazione, e vi è una chiara tendenza ad attuarla spontaneamente. D’altro canto le preposizioni articolate collo (con lo), colla (con la) e cogli (con gli), palesemente in disuso, sembrano andare nel verso opposto, ma qui è probabile che le forme univerbate vengano percepite come poco trasparenti, forse anche perché omografe di altre parole.

Morfosintassi

Passando alla morfologia, negli ultimi anni si è consolidato l’uso del pronome atono gli come complemento di termine anche per il maschile plurale, al posto di loro (“ho parlato coi miei genitori e gli ho promesso che resterò”): il fatto di essere bisillabico e quindi non atono, nonché la necessità di posporlo, rendono quest’ultimo decisamente “antieconomico”. Nonostante molti insegnanti continuino a censurarlo, l’uso di gli al plurale è oggi largamente prevalente non solo a livello orale ma, con poche eccezioni, anche nella scrittura. Il suo impiego al posto del femminile le, invece, nello scritto e nel parlato di registro alto è ancora fortemente stigmatizzato, ma è anch’esso indubbiamente in crescita.

A livello sintattico, infine, negli ultimi anni si è fortemente accentuato l’uso della coordinazione rispetto alla subordinazione, con prevalenza di frasi brevi e uso del punto fermo laddove un tempo si sarebbe usata la virgola. Secondo il logico Ermanno Bencivenga, quest’evoluzione è ravvisabile da tempo anche nell’oratoria politica e «suggerisce che chiunque abbia scritto questi discorsi non aveva molta fiducia nell’abilità del pubblico di gestire proposizioni subordinate» (La scomparsa del pensiero, Milano, Feltrinelli, 2017, pag. 106). Pur senza voler trarre conclusioni generali, che ci porterebbero troppo lontano, è indubbio che negli ultimi dieci anni circa, con la diffusione di dispositivi mobili come smartphone e tablet diventati ormai il principale mezzo di lettura per una parte cospicua di popolazione, si sia diffusa una consapevolezza generale circa la necessità di semplificare e accorciare i testi, spiegata come conseguenza della minore concentrazione e della diminuzione della soglia di attenzione connaturate ai mezzi digitali (una frase come questa, per esempio, è fortemente sconsigliata).

Il brano che presenteremo ora come esempio è un caso limite, perché proviene da un editorialista noto per il suo stile particolarmente segmentato, ma è abbastanza rappresentativo di una generale tendenza alla frammentazione sintattica nella scrittura attuale: «Le frontiere, i confini, infatti, più di ogni altro riferimento, marcano la differenza e l’appartenenza nazionale. Ci “de-finiscono”. Cioè, ci de-limitano. Perché il finis è il confine ultimo. Invalicabile. Distingue e distanzia noi dagli altri.» (Ilvo Diamanti, citato in Francesco Sabatini, Lezione di italiano, Mondadori, Milano, 2016, pag. 100).

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