I cambiamenti linguistici in atto — Sovrabbondanza (2/4)
Una miniserie di quattro articoli sulle trasformazioni che sta vivendo la nostra lingua e sulle tensioni di fondo che le determinano.
La categoria della sovrabbondanza potrebbe anche essere definita, in modo speculare alla precedente, come complicazione. Tuttavia, a parte la contraddittorietà rispetto al principio di economia sopra enunciato – circostanza di per sé superabile, giacché la lingua ha le sue ragioni, che la ragione non sempre conosce – il fatto è che non sempre ciò che pare a prima vista una complicazione lo è realmente.
Congiuntivite
Certo è difficile negare che lo sia l’ipercongiuntivismo che da qualche tempo capita di riscontrare nel parlato e nello scritto della nostra lingua. Sì: a dispetto degli eterni allarmi sulla sua “morte” e dei ricorrenti appelli a “salvare il congiuntivo”, in realtà il Nostro è vivo e gode di ottima salute. Anzi, è proprio perché in tanti identificano il “buon italiano” con l’uso del congiuntivo che, per via di quel fenomeno che i linguisti chiamano ipercorrettismo, questo modo verbale finisce per essere usato anche in eccesso rispetto alla norma, come in questi casi: «I giudici della Corte hanno stabilito (…) che la richiesta del Texas fosse priva di basi legali e non accoglibile» (Il Post, 12 dicembre 2020); «(…) ha rifiutato di dimettersi nonostante persino la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson abbia detto esplicitamente che in questi mesi abbia avuto un atteggiamento tutt'altro che trasparente» (newsletter “Konrad”, 23 gennaio 2021). Il fatto è che, dal punto di vista linguistico, il congiuntivo è un “lusso”, che per giunta risponde a norme di applicazione in parte illogiche: se è chiaro perché si dica “Credo che Alfredo sia sincero” ma “So che Alfredo è sincero” (nel primo caso c’è incertezza, nel secondo no), difficilmente comprensibile è invece l’uso del congiuntivo in frasi come “Non c’è alcun dubbio che sia così”. Semplicemente, con certi verbi, congiunzioni e costrutti sintattici, per convenzione in italiano si usa il congiuntivo; con altri, anche quando il contesto è identico, no: “Nonostante piovesse, decisi di uscire a fare una passeggiata”, ma “Anche se pioveva, decisi di uscire a fare una passeggiata”. Tutto sommato, la cosa sorprendente è che questo raffinato modo verbale esista ancora e lotti insieme a noi: evidentemente, la semplicità non è tutto nella vita.
Legato all’utilizzo del congiuntivo è anche un altro caso di palese complicazione. Da qualche tempo, specie nell’uso giornalistico, pare essere diventato non un’opzione stilistica bensì una regola ferrea introdurre le subordinate oggettive rette da determinati verbi – specie i verba dicendi – con la congiunzione come + congiuntivo invece che con il più usuale che + indicativo: «Secondo al Jazeera, il ministero ha precisato come siano esclusi dalle nuove misure i cittadini iracheni» (Il Messaggero, 25 febbraio 2020); «…sebbene le autorità sanitarie assicurino come il picco del contagio sia stato ormai superato» (GR3, 26/04/2020). Ma è frequente anche l’uso con altri modi verbali: «Nel frattempo, il commissario ha comunicato come i cantieri relativi alla viabilità e alla messa in sicurezza delle scuole saranno prioritari» (qdpnews.it, 13 novembre 2020); «La Marina militare ha affermato come l’intervento del nostro cacciatorpediniere sarebbe stato impossibile a causa della distanza dell’incidente» (affarinternazionali.it, 11 novembre 2020).
Va notato, peraltro, che in certi casi quest’uso genera ambiguità per l’incertezza tra il valore di come nel senso usuale di “il modo in cui” o in quanto sostituto di che. Nella frase «Il coach del numero 10 ATP ha spiegato come il 2020 sia stato comunque utile alla crescita di Berrettini» (tennis.it, 14 dicembre 2020), non è chiaro se il coach si sia limitato ad affermare che il 2020 è stato utile al suo giocatore o abbia anche spiegato il modo in cui lo è stato. Lo stesso accade in questa: «Il tecnico dell'Everton, Marco Silva, al termine della partita ha spiegato come André Gomes sia stato trasportato in ospedale per gli esami del caso» (goal.it, 3 novembre 2019), dove sembrerebbe che il tecnico abbia spiegato le modalità del trasporto in ospedale del calciatore.
Quello che è
Senz’altro da ascrivere alla categoria di sovrabbondanza è anche la locuzione quello/quella che è, quelli/quelle che sono, che da qualche anno punteggia i discorsi di chi parla in pubblico. Si potrebbe liquidare il costrutto come analogo ad altri riempitivi, che nell’espressione orale servono a guadagnare attimi preziosi nel formulare la frase, ma la questione è più complicata. Come ha notato la linguista Roberta Cella, molti parlanti sembrano sentire questa locuzione «come più scelta ed elegante». Inoltre, è abbastanza facile trovarla anche nello scritto: «(…) Lo annuncia su Facebook la Ministra Azzolina, riepilogando quelle che sono le principali misure riguardanti la scuola» (tecnicadellascuola.it, 27 dicembre 2020); «A un mese esatto da quella che è la data fissata dagli organi federali per il riavvio generale delle attività (…)» (ilgazzettino.it, 17 dicembre 2020); «Si prevede anche una dote unica per i figli a carico fino a 3 anni e per un importo massimo di 400 euro per coprire quelli che sono i servizi quali asili nido, babysitter o simili» (altalex.com, 1 aprile 2020); «Volendo cercare di fare un elenco di quelli che sono i musei di Matera…» (turismomatera.it). Da notare che la locuzione, spesso, è usata in sostituzione del semplice quale nelle completive: «Ivan Gazidis, Paolo Maldini e Ricky Massara sanno bene quelle che sono le condizioni economiche da strappare alle controparti» (tuttosport.com, 19 giugno 2020); «Osservando le nostre galline proprio durante la muta possiamo già capire quelle che sono le ovaiole migliori» (tuttosullegalline.it, 15 novembre 2020).
Secondo Cella, quest’uso potrebbe rappresentare «un profondo mutamento strutturale dell’italiano», perché la locuzione viene usata al posto del normale articolo determinativo, come se questo «non bastasse più a determinare il nome» (Storia dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 2015, pag. 160). Sarebbe, insomma, un bisogno di pregnanza, di significatività verbale a portare alla ridondanza di un costrutto dalla funzione essenzialmente deittica, dimostrativa (il che tra l’altro costituisce una sorta di ritorno al passato, dato che gli articoli determinativi italiani derivano dal pronome dimostrativo latino ille).
Voler volere è poter potere
Sempre a proposito di pleonasmi, da qualche tempo si osserva un chiaro aumento, anche nello scritto, dell’uso ridondante dei verbi modali (potere, volere, dovere). Vediamo qualche esempio: «Ancora da dimostrare la possibilità che il virus possa avere portatori sani, cioè asintomatici» (Avvenire, 1 febbraio 2020); «Nel 2017 il Tribunale costituzionale ha concesso a Morales la possibilità di potersi ripresentare» (Atlante geopolitico Treccani 2019, pag. 182); «Il testo parte dall'assunto che nessun Paese è in grado di poter raggiungere da solo l'obiettivo…» (repubblica.it, 19 settembre 2017); «Considerata la necessità di dover provvedere all’erogazione di un indennizzo in favore degli operatori di rete locali…» (Decreto del Ministero dello sviluppo economico, 9 dicembre 2020); «Il capitano dei blaugrana avrebbe infatti già comunicato alla squadra la sua volontà di voler cambiare ambiente quanto prima» (fanpage.it, 18 agosto 2020).
In qualche caso, peraltro, la ridondanza di questi costrutti potrebbe anche ricondursi al principio di semplificazione, per quanto ciò paia a tutta prima illogico. La costruzione della frase con il verbo servile potere, infatti, diminuisce la necessità di coniugare i verbi al congiuntivo – cosa che in sé può costituire una difficoltà, specie in caso di verbi irregolari: dire “la possibilità che essi possano trarre conclusioni sbagliate”, insomma, è più scomodo ma anche grammaticalmente più facile che “la possibilità che essi traggano conclusioni sbagliate”. In ogni caso, sempre più spesso la normale costruzione delle subordinate dichiarative dipendenti da nomi indicanti possibilità o incertezza (nome + che + proposizione con verbo al congiuntivo, ad esempio “il timore che la Commissione interrompa l’erogazione dei fondi”) viene sostituita da quella nome + che + proposizione con verbo servile al congiuntivo e verbo principale all’infinito (“il timore che la Commissione possa interrompere l’erogazione dei fondi”).
Che genere di lingua
La lingua, tra le altre cose, è specchio anche dei rapporti sociali: quando cambia la società, essa naturalmente assorbe e registra questi mutamenti. Da qualche anno, anche in Italia, si è accesa la discussione su come rendere la nostra lingua più inclusiva e rispettosa della parità di genere. I mutamenti che ne stanno derivando, ancora in corso, a volte vanno verso la razionalizzazione e la semplificazione. È questo il caso, senz’altro, dei “nomi mobili”, quelli che distinguono il femminile e il maschile mediante desinenze diverse o suffissi. Se il femminile di maestro è maestra e quello di cuoco è cuoca, ad esempio, è del tutto logico che il femminile di sindaco sia sindaca, forma che infatti, dopo qualche incertezza, si sta ormai consolidando. Lo stesso sta accadendo con assessora, forma femminile coerente di assessore come pastora lo è di pastore e tintora di tintore; nei casi in cui le forme con l’antieconomico suffisso -essa sono ormai consolidate, invece (dottoressa, professoressa), esse sembrano destinate a mantenersi, con l’eccezione dei sostantivi nati da participi presenti, che di regola in italiano hanno un’unica forma per il femminile e il maschile (il femminile di un amante è una amante, quello di cantante è una cantante): ecco quindi che la laboriosa, involuta forma la presidentessa ha perso molto terreno rispetto al più naturale la presidente, e accanto a studentessa inizia ad affacciarsi timidamente anche la studente.
Nel caso del maschile usato al plurale in modo neutro o “sovraesteso”, invece, cioè inglobando anche i referenti femminili, non si può negare che le soluzioni proposte per evitare il sessismo insito in quest’uso portino alla complicazione e alla sovrabbondanza. Ritenendo inaccettabile, ad esempio, che le espressioni i candidati, i cittadini, buongiorno a tutti rendano invisibile la componente femminile, o il fatto che in presenza di una pluralità di nomi maschili e femminili gli aggettivi e i verbi, per convenzione, vengano declinati al maschile (“Carlo, Franca, Daniela e Ludovica sono tornati ieri”), vengono proposte e sempre più spesso applicate diverse soluzioni: affiancare puntualmente la forma femminile a quella maschile (ad esempio, “buongiorno a tutte e a tutti” invece che “buongiorno a tutti”); oppure utilizzare l’asterisco come “carattere jolly” al posto della vocale finale (“a tutt*”), strategia che però funziona solo nello scritto; o ancora usare lo schwa o scevà (rappresentato col segno ə), vocale “neutra”, indistinta, inesistente in italiano ma presente in altre lingue e nei dialetti meridionali (per esempio, nella pronuncia di “Napoli”: ˈnaːpulə). I creatori del sito Italiano inclusivo propongono di usare lo schwa per il singolare (ad esempio, maestrǝ per “maestro” e “maestra”) e il simbolo з (schwa lungo) per il plurale (maestrз per ‘maestri’ e ‘maestre’).
Il senso di complicazione provato da molti davanti a queste proposte dipenderà anche, com’è normale, dalla novità della cosa. Tuttavia, ognuna delle soluzioni fin qui viste presenta indubbiamente punti deboli. Il problema, comunque sia, è strutturale: come far sì che una lingua binaria e androcentrica – e che non contempla il genere neutro – si adatti ad un mondo sempre più fluido e non binario. Solo il tempo ci dirà quali risposte alla sfida si riveleranno vincenti. Forse saranno soluzioni nuove, diverse da quelle contemplate sinora; in ogni caso, ai nostri figli e nipoti sembreranno semplici e naturali.
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