> L'evoluzione delle parole

I cambiamenti linguistici in atto — Concordanza (3/4)

Una miniserie di quattro articoli sulle trasformazioni che sta vivendo la nostra lingua e sulle tensioni di fondo che le determinano.

La cosiddetta “concordanza a senso” non è certo una novità in italiano. Specialmente con i nomi collettivi, l’accordo del verbo è ritenuto una questione di gusto, di sensibilità individuale. La regola, tradizionalmente, prevede che il verbo si accordi con la testa del sintagma nominale: nel caso di “un gruppo di ragazzi”, la testa è gruppo, quindi si dovrebbe dire che “un gruppo di ragazzi fu rimproverato dal preside”, non “furono rimproverati”. E sia. Ma che dire, invece, di questo esempio: “Un centinaio di facinorosi si è scontrato con la polizia”? Non suona altrettanto bene “Un centinaio di facinorosi si sono scontrati con la polizia”? D’altronde sono stati i facinorosi, non il centinaio a scontrarsi con la polizia, no? Nel caso di “C’era un paio di uomini che urlava per strada”, poi, suona decisamente meglio “c’erano un paio di uomini”, eppure anche in questo caso non manca chi sostiene che si tratti di un errore.

Ad (non) sensum

Rispetto al passato, oggi sembra esserci una diminuzione della tolleranza per le costruzioni ad sensum, una tendenza ad attenersi maggiormente al senso grammaticale rispetto a quello logico. La rigidità nel rispettare pedissequamente la norma, tuttavia, spesso è spia di insicurezza, e infatti non stupisce che – specularmente a questa rigidità – da qualche tempo si osservino accordi del predicato verbale difficili da considerare come accettabili concordanze a senso. Vediamo qualche esempio: «Durante la seduta di borsa, il valore delle azioni della compagnia sono aumentate oltre l'8%» (Newsletter di Good Morning Italia, 23/01/2020); «La validità delle prove scientifiche sono state classificate in 3 categorie come segue…» (torrinomedica.it); «La sovrapposizione delle diverse genealogie (quella genetica, quella paleoantropologica e quella linguistica) permettono infatti di affermare che…» (Voce di Wikipedia su Geni, popoli e lingue di Luca Cavalli-Sforza fino al 1 febbraio 2020).

Come si vede, in questi casi il predicato è accordato col complemento (o i complementi) di specificazione nonostante la testa del sintagma non sia un nome collettivo né un numerale. Si ha l’impressione che questi casi di ‘concordanza a senso involontaria’ siano in crescita, a causa forse dell’eccessiva fretta nello scrivere, o di una crescente inclinazione del radar linguistico degli scriventi a perdere il segnale sintattico. Lo stesso si può dire di un certo modo di costruire le subordinate relative che è invalso da qualche anno, e che costituisce un caso radicale di concordanza ad sensum. Sempre più spesso, si leggono frasi come queste: «McGowan è una delle attrici che ha accusato il produttore Harvey Weinstein per molestie sessuali» (Il Post, 27 ottobre 2017); «…la California è uno degli stati che negli ultimi anni ha chiesto agli insegnanti e agli editori di dare spazio ai contributi di immigrati provenienti dall’Asia…»  (Internazionale n. 1345); «È morta la giornalista e blogger tunisina Lina Ben Mhenni, una delle voci che aveva raccontato la rivoluzione dei gelsomini del 2011» (Newsletter di Good Morning Italia, 28 gennaio 2010); «Parleremo con Ivan Scalfarotto, uno degli elementi di Italia Viva che si è dimesso ieri» (“Zapping”, Radio Tre, 14 gennaio 2021). Cosa c’è che non va in queste frasi? Che il verbo della proposizione relativa è stato accordato direttamente al nome da cui dipende il complemento partitivo, lasciando quest’ultimo ‘campato per aria’, privo di qualsiasi funzione. “La California è uno degli stati”: di quali stati? quelli “che hanno chiesto agli insegnanti e agli editori di dare spazio ai contributi di immigrati provenienti dall’Asia”, evidentemente. Se invece scrivo “uno degli stati che ha chiesto”, il partitivo “degli stati” resta semanticamente privo di denotazione, vuoto: le relative di questo tipo, infatti, sono restrittive, cioè essenziali per definire il nome a cui si riferiscono). Lo stesso vale per le altre frasi citate: la giornalista e blogger tunisina Lina Ben Mhenni era “una delle voci”; di quali voci? quelle che avevano raccontato la rivoluzione dei gelsomini.

In certi casi, tra l’altro, questo tipo di concordanza rende ambiguo anche il senso della frase: se dico «Parleremo con Ivan Scalfarotto, uno degli elementi di Italia Viva che si è dimesso ieri», non è chiaro se intendo dire che Scalfarotto è un parlamentare di Italia Viva e che si è dimesso ieri (quindi, si è dimesso solo lui), oppure che Scalfarotto è uno degli elementi che si sono dimessi (quindi, ieri si sono dimessi diversi parlamentari di Italia Viva). Specialmente nel parlato – ma non solo – spesso la concordanza a senso in questi costrutti è ancora più spinta: da qualche tempo è normale sentir dire, ad esempio, “io sono uno di quelli che pensa che”, o addirittura “io sono tra coloro che pensa che”, dove manca qualsiasi appiglio grammaticale per coniugare il verbo al singolare. Questi ultimi casi, a ben vedere, possono essere ricondotti alla categoria di sovrabbondanza: pare evidente che ci sia una tendenza ad utilizzare costruzioni con il partitivo (uno di quelli) laddove basterebbe dire, semplicemente, “penso che”. Sarebbe interessante approfondire la crescente propensione a dichiararsi parte di una collettività, nell’esprimere la propria opinione.

Spese folle

Un altro caso di concordanza problematica riguarda gli aggettivi della seconda classe, quelli (come debole e facile) che hanno la desinenza in -e al maschile e femminile singolare ed escono in -i anche al femminile plurale. In particolare, la difficoltà si riscontra nel caso di aggettivi formati con il prefisso bi- o tri-, come bilingue e tricolore. Il plurale di questi aggettivi non dovrebbe dare adito a dubbi: bilingui, tricolori; eppure, da una decina d’anni circa, nonostante la popolarità delle “Frecce Tricolori” si manifestano incertezze nei parlanti: digitando “frecce tricolore” su Google, si ottengono centinaia di pagine web con il sintagma scritto in quel modo, e tanti utenti chiedono consulenza linguistica sulla desinenza giusta dell’aggettivo. Nel caso di bilingue, il plurale in -e sembra addirittura aver sopravanzato quello regolare in -i, non solo in rete ma anche nelle pubblicazioni a stampa, come si può vedere da questo grafico realizzato con Ngram Viewer di Google Libri:

La difficoltà sembra dipendere solo in parte dall’“irregolarità” del plurale femminile in -i (che peraltro spiegherebbe “frecce tricolore” ma non “bambini bilingue”, essendo “bambino” maschile), per quanto si avverta una crescente incertezza sulla desinenza del femminile plurale degli aggettivi della seconda classe: in rete si trovano molte occorrenze di sintagmi come “spese folle”, “le organizzazione” e “le discriminazione” (difficilmente spiegabili come refusi dato il loro ricorrere anche nel parlato). Si potrebbe anche ravvisare un processo di rianalisi (reinterpretazione) degli aggettivi composti con prefissi numerici, che vengono ricondotti alla loro componente nominale (bilingue = dalle due lingue, tricolore = dal triplice colore), analogamente a quanto accade con aggettivi invariabili come biporte (automobili biporte), bifase (sistemi bifase) e bibagno (appartamenti bibagno).

Come si legge “km 0”

Altrettanto problematica appare la concordanza in una locuzione che da qualche tempo è assai di moda in ambito commerciale: “a chilometro zero”. Le prime attestazioni si hanno intorno alla metà degli anni Novanta, quando i concessionari iniziarono a vendere automobili definite “a chilometri zero”, cioè in teoria usate (perché i venditori se le autoimmatricolavano) ma di fatto nuove, in quanto avevano percorso “zero chilometri”. Fin qua tutto bene, tranne la particolarità di quel numerale posposto (l’ordine più naturale sarebbe “a zero chilometri”). Intorno al 2004, però, la locuzione venne adottata nell’ambito del mercato alimentare, per incentivare l’acquisto di prodotti il più possibile locali, coltivati vicino al luogo di vendita e non importati da altre regioni o Paesi. L’analogia con le automobili era chiara: come le auto “a chilometri zero”, anche quei prodotti, per arrivare al consumatore, avevano percorso zero chilometri (è evidente che si tratti di un’iperbole, ma non sottilizziamo: è il principio che conta). Stavolta, però, i chilometri sono diventati “chilometro”, al singolare: a chilometro zero.

È difficile intenderne il motivo, ma certamente non sono accettabili spiegazioni in palese contraddizione con la logica e la prassi linguistica, basate sul fatto che zero, similmente a uno, implichi il singolare: infatti è normale dire, ad esempio, che in un rapporto sentimentale con qualcuno ci sono zero problemi, non *zero problema, o che al palazzetto, per la partita, causa Covid c’erano zero spettatori, non certo *zero spettatore. Piuttosto, pare che chilometro zero si sia cristallizzato nel senso di “principio, metodo o attitudine a valorizzare la dimensione locale, abbattendo le distanze”, il che porta al mantenimento del singolare nella locuzione. Quest’idea pare confermata dall’espansione della locuzione in altri settori: recentemente, la casa editrice Pearson ha lanciato una piattaforma online chiamata appunto “Kilometro zero”, con lo slogan “Imparare senza distanze”, da usare per la didattica… a distanza.

Commenti