Antilingua
an-ti-lìn-gua
Significato Nel senso usato da Calvino, nell’articolo “La nuova questione della lingua” (1965): linguaggio burocratico, caratterizzato da forme complesse, astratte e stereotipate; per estensione linguaggio irrigidito a causa di scelte ideologiche o conformistiche, che limita la comunicazione invece di facilitarla. Nel senso usato dal linguista Halliday, nell’articolo “Anti-Languages” (1976): gergo minoritario, espressione di una controcultura
Etimologia derivato di ‘lingua’, dal latino lingua, con l’aggiunta del prefisso anti- nell’accezione di ‘contro’, dal greco antí.
Parola pubblicata il 03 Maggio 2021
Parole d'autore - con Lucia Masetti
La lingua cresce con la letteratura – e noi abbiamo un bel mucchio di parole inventate da letterati, rese correnti da autori celebri, o che nascono da opere letterarie. Scopriamo insieme queste belle parole dietro alle quali si può sorprendere una mano precisa.
Questo neologismo semplice, ma efficace, è di solito ricondotto all’inventiva calviniana, anche se non sono da escludere usi precedenti. In particolare nasce per descrivere il linguaggio tipico della burocrazia, che per Calvino è perseguitato da un “terrore semantico”: aborre cioè ogni parola dotata di un significato concreto e famigliare, per creare una cortina fumogena di vocaboli astratti. Perciò, ad esempio, “prendere un fiasco di vino” si traduce in “effettuare l’asportazione di un prodotto vinicolo”.
Così la lingua perde la sua funzione di base – comunicare – per assumerne altre, anzitutto sottolineare il ruolo di chi parla. È una deriva che può riguardare tutti i linguaggi settoriali, come quello aziendale che è spesso full di parole cool ma poco smart. Inoltre l’antilingua può essere usata per circuire l’ascoltatore, come il famoso latinorum di don Abbondio.
In campo letterario poi può essere una lingua che si compiace di se stessa, ritraendosi inorridita di fronte all’impoeticità del quotidiano. Scrivere una parola come ‘caffè’ creerebbe scompensi cardiaci in tutte le muse dell’Olimpo: meglio, se proprio non si può evitare il concetto, “la nettarea bevanda, ove abbronzato / fuma et arde il legume a te d’Aleppo / giunto, e da Moca, che di mille navi / popolata mai sempre insuperbisce” (Il giorno, Parini).
C’è però anche un’altra, più oscura piega dell’antilingua, o ‘lingua di legno’ come ai francesi piace chiamarla. Si tratta del linguaggio ideologico, che imbriglia le parole per controllare i pensieri. Calvino non tratta quest’accezione, ma la sua antilingua ha un evidente legame di parentela con la ‘neolingua’ del romanzo 1984 di Orwell (1949).
È vero che la neolingua non mira a complicare ma a semplificare il linguaggio, eliminando tutti i sinonimi e le eccezioni grammaticali. Ciò è studiato dal governo allo scopo di instupidire i parlanti, rendendo impossibile ogni forma di pensiero divergente.
Il meccanismo di fondo però è lo stesso individuato da Calvino. La lingua cioè è ingabbiata in una struttura innaturale, cosicché non esprime più la realtà vissuta dai parlanti ma crea una realtà parallela: astratta, impersonale e spesso contraria al buon senso.
Nel discorso pubblico si riconducono a questa accezione – nonostante le intenzioni di buona convivenza da cui nasce – anche certi esiti del politically correct. La tabuizzazione di alcuni concetti, o il modo in cui sono avvolti in astrazioni, possono rendere più complessa la comunicazione. Emblematica l’iniziativa della Words Matter Task Force dell’università del Michigan, che ha stilato una lista di parole da eliminarsi in quanto potenzialmente offensive: ‘picnic’ sarebbe uno di questi vocaboli.
L’antilingua però può avere anche un significato opposto, tanto che potremmo definirla una parola enantiosemica. Nell’uso del linguista Halliday infatti l’anti-language non è espressione dei centri di potere o delle ideologie dominanti, bensì delle culture minoritarie che si sviluppano in opposizione alle norme e ai valori codificati.
L’esempio per eccellenza sono i gerghi criminali, come il pelting speech dell’Inghilterra elisabettiana o i linguaggi delle reti mafiose; ma gli scopi possono essere anche più innocenti. Il verlan, per esempio, è uno slang diffuso tra i giovani delle banlieues parigine, che giocosamente inverte le sillabe del francese divertendosi alle spalle dei non iniziati.
Nell’antilingua insomma ritroviamo l’ambiguità propria del linguaggio, che ha tutte le potenzialità del metallo fuso e perciò può farsi sbarra o grimaldello, a seconda delle scelte di chi lo forgia.