Bitorzolo

È una parola molto familiare, forte di un suono particolarmente complesso ed evocativo, e di un significato su cui in effetti non convergono vaste batterie di sinonimi. Col suo significato di prominenza irregolare che sporge da una superficie, ha l’età della nostra lingua (le prime attestazioni sono del primissimo Trecento), ed emerge dalle nebbie del medioevo in maniera tutt’altro che chiara. I linguisti sono soliti mettere in campo una sola ipotesi, non pacifica ma con un certo credito: che ci racconti il risultato di un torcere. Ed è un’immagine molto interessante.

Ovviamente i bitorzoli della patata, della seduta di pietra scalpellata alla peggio, del nasone dell’oste, non sono frutto di una torsione, ma il risultato di un accrescimento o di una lavorazione ineguale. Eppure le nostre mani sanno bene che una superficie liscia e piana (pensiamo a un panno) se ritorta prende uno spessore discontinuo e può avvitarsi in bitorzoli; non è proprio la dinamica del nodo, ma quasi, anzi: lo stesso concetto di ‘nodo’ (pensiamo a quello del legno) ricorre al nome di un groppo stretto per significare un punto sporgente o irregolare. Insomma, sono giochi di tridimensionalità sbilenca.

Insieme al bozzo e allo stesso nodo, il bitorzolo copre questi significati — col pregio di una fonetica che è essa stessa fortemente inuguale, tutta occlusioni, non aspra ma certo non levigata. Così possiamo parlare dei bitorzoli dei nostri primi esperimenti con la creta, del tronco bitorzoluto di un castagno che avrebbe parecchie storie da raccontare, del cuscino irrimediabilmente bitorzoluto che cerchiamo di spianare ogni sera. Oltre a essere una parola familiare, trasmette una speciale vivacità: il bitorzolo è segno di vita. Vita imperfetta di lavori storti e crescite disomogenee — ed è per questo che è un segno autentico.