Autenticità
au-ten-ti-ci-tà
Significato La condizione dell’autentico, vero, reale; originalità, genuinità, schiettezza; l’esistenza in cui il singolo ritrova il proprio più profondo sé stesso
Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo authènticus, prestito dal greco authentikós, da authéntes ‘che è fatto da sé’, composto di autós ‘sé stesso’.
Parola pubblicata il 02 Maggio 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Mentre stabilire l’autenticità di qualcosa (un quadro, un manoscritto, un reperto archeologico) può essere talvolta difficile, cosa s’intenda per ‘autentico’ invece è chiaro a tutti: vero, non falso – né falsificato: un oggetto può essere giudicato a torto autentico per semplice errore di valutazione o perché fabbricato in modo fraudolento. Se però si parla dell’autenticità di una persona, di un’esistenza, tutto si fa più nebuloso: cosa mai potrà voler dire che la vita di qualcuno sia inautentica? Se essere autentici significa in sostanza essere sé stessi – il greco authentikós deriva da autós ‘sé stesso’ –, come potrei io non essere io? E quali sarebbero i criteri per stabilirlo?
Nella storia della filosofia, l’autenticità diventa un tema solo in epoca moderna, quando emerge acutamente la coscienza di una scissione tra individuo e ruolo sociale, singolo e massa, e con essa l’idea di un essere umano alienato dalla sua vera essenza. In particolare, è un argomento centrale nella speculazione di quei pensatori definiti in senso lato ‘esistenzialisti’ – coloro, cioè, che preferiscono riflettere sull’esistenza individuale concreta piuttosto che su questioni teoretiche come l’ontologia o l’epistemologia. Cosa s’intenda esattamente per autenticità, però, resta indeterminato. Karl Jaspers, ad esempio, nel 1918 la definiva così: «ciò che è più profondo in contrapposizione a ciò ch’è più superficiale (…), ciò che dura di contro a ciò ch’è momentaneo, ciò ch’è cresciuto e si è sviluppato con la persona di contro a ciò che la persona ha accettato o imitato». Formulazione tanto sensata e facilmente condivisibile quanto vaga.
Forse è meno paradossale di quanto sembri, perciò, che a dare una definizione netta e radicale dell’autenticità sia stato Martin Heidegger (1889-1976), un pensatore che – pur venendo annoverato anch’egli (suo malgrado) tra gli esistenzialisti – ha dedicato la sua speculazione solo ed esclusivamente all’ontologia, la scienza dell’essere in quanto essere. Nella sua opera più famosa, Essere e tempo, egli però si concentra non sull’essere in generale ma su quell’ente che, per sua natura, s’interroga sul senso dell’essere: l’umano. Per Heidegger, da una parte l’esistenza è essenzialmente possibilità, progettualità, trascendenza: l’essere umano è un ente diverso dagli altri, giacché non esiste in quanto semplice presenza, come gli oggetti (il nostro esistere è ex sistere, ‘stare fuori’, oltrepassare la realtà oggettiva). Dall’altra, però, l’esistenza umana è un fattivo «essere-nel-mondo» e «essere-con-gli-altri», la cui modalità essenziale è la «cura», l’occuparsi delle cose e delle persone con cui interagiamo.
Martin Heidegger nel mondo, con gli altri, in una foto del 1960.
Questo commercio quotidiano con il mondo implica una «immedesimazione» che «ha per lo più il carattere dello smarrimento nella pubblicità del 'si'», ossia un’esistenza anonima e impersonale che costituisce uno «stato di deiezione», uno scadimento in cui ognuno si uniforma a ciò che si pensa, si dice, si fa, dove il sapere e il discorso diventano curiosità, chiacchiera ed equivoco. In altre parole, l’inautenticità è la condizione prevalente della quotidianità umana, nella quale vige una «comprensione media» delle cose a cui non ci si può sottrarre. E questa deiezione è costitutiva, non dev’essere intesa come «‘caduta’ da uno ‘stato originario’ più puro e più alto», come qualcosa che «il progredire della civiltà umana potrebbe un giorno annullare». Ma se è così, in che modo potremmo attingere l’autenticità?
La risposta di Heidegger è categorica: se l’esistenza è possibilità, è innegabile che «la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile» dell’essere umano sia la morte. Perciò l’unica esistenza autentica possibile è un «essere-per-la-morte», ossia «precorrere» la morte, anticiparla – il che ovviamente non vuol dire togliersi la vita, bensì assumere con «risolutezza» questa «possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci» come orizzonte esistenziale, riconoscendo le possibilità molteplici e concrete della vita quotidiana come limitate e precarie, senza fossilizzarsi e disperdersi in alcuna di esse ma scegliendole come proprie, e rimanendo sempre progettualmente aperti.
Nell’esistenza inautentica e anonima del ‘si’, le possibilità non sono realmente tali, perché non sono davvero scelte bensì subìte, e la morte viene esorcizzata e resa anch’essa impersonale: ‘si’ muore, ma «di volta in volta, non sono io». L’esistenza inautentica è un eterno e vuoto presente in cui la finitezza dell’esistenza viene rifiutata e mascherata attraverso la chiacchiera, e la situazione emotiva dell’angoscia, che rivela questa finitezza, viene sostituita da una generica e banale paura. Vivere per la morte, invece, è avere il coraggio dell’angoscia di fronte al nulla, accettare radicalmente la propria mortalità. E solo questo, a ben vedere, rende davvero possibili le altre possibilità e pienamente libere e responsabili le nostre scelte e l’intera esistenza: in una vita pensata come eterna ogni scelta sarebbe indifferente, perché sempre rimediabile.
Non una ricetta ‘facile e veloce’ per la vita felice, indubbiamente, ma nessuna prospettiva radicale lo è – e di Heidegger tutto si può dire fuor che non sia radicale.