SignificatoFar sparire; scomparire (specie come intransitivo pronominale, ‘dileguarsi’)
Etimologia dal latino deliquare ‘travasare’, derivato di liquare ‘liquefare, filtrare’, con prefisso de-.
C’è qualcosa di misterioso, nel dileguare, una cifra che si porta dietro attraverso una lunga trasformazione e che arriva al modo in cui nel momento del bisogno qualcuno si dilegua, a come il sole dilegua la nebbia del mattino, o ci si dilegua nella folla.
Non è una parola aulica. O meglio, affolla la nostra letteratura fino alle vette, e usandola nei nostri discorsi vediamo che li impreziosisce, ma ha dei natali umili, un taglio selvatico. È una storpiatura, maturata nei secoli, del latino deliquare, rispetto al quale ha sviluppato significati decisamente diversi — anche se la lessicografia mostra qualche incertezza nel catturare i significati di questo antecedente latino.
Il verbo di base liquare, oltre a ‘liquefare’, ha anche l’importante significato di ‘filtrare’: lo troviamo memorabilmente due versi sopra al carpe diem nella celebre ode di Orazio (vina liques et spatio brevi/ spem longam reseces, ‘filtra il vino, e ritaglia a uno spazio breve la lunga speranza’). Il deliquare rafforza e compie questo filtrare come un mescere, un travasare: si prende un liquido ottenebrato da impurità, o con elementi galleggianti che non gradiremmo ritrovarci in bocca bevendo, e si versa in un nuovo contenitore con un lino come filtro (particolarmente utile se si parla di vino, visto che dentro i Romani ci mettevano dentro di tutto, per profumarlo). Il risultato è una mescita più limpida.
Date queste premesse, non ci stupisce affatto che il primo significato figurato del deliquare sia stato quello di chiarire, spiegare. C’è una materia torbida, e io la verso in un’altra forma più chiara. Ma la storia che porta al dileguare italiano è meno pulita.
Quell’antico travasare slitta su una vera miriade di significati che gravitano sui concetti dello smorzare, del disperdere, dello scomparire, del distruggere, attestati dal Trecento in poi. Se proviamo a giustapporre l’immagine del vino che viene travasato e di noi che ci dileguiamo nella folla, forse riusciamo a cogliere che il filtrare è sempre un eliminare, un omogeneizzare: noi prima eravamo distinti da uno sfondo liquido, ma ciò che ci distingue viene meno quando ci dileguiamo. Rimane qualcosa di più omogeneo, liscio e piatto, sciolto e sparso, da cui qualcosa è stato dissipato, diradato, in cui c’è stata una riduzione, un affievolimento — perfino un po’ di rovina, che spiana l’asperità del castello sul paesaggio, un po’ di morte, che livella. O magari, come nota qualcuno, nel dileguare potrebbe emergere un significato meno evidente del deliquare, uno ‘sciogliere del tutto’, che pure ben si accorderebbe a questa serie di significati.
Qui sta il carattere straordinario del dileguare: un verbo popolare che è sempre stato vissuto in maniera libera e potente, frugando e interpretando ogni possibilità di questo suo vasto e complesso stemperare, e che ciò nondimeno non si è mai annacquato, si è anzi mantenuto preciso in quell’aura di inafferrabilità liquida che scivola via come acqua fra le dita, acqua sulla zolla riarsa, acqua nell’acqua.
C’è qualcosa di misterioso, nel dileguare, una cifra che si porta dietro attraverso una lunga trasformazione e che arriva al modo in cui nel momento del bisogno qualcuno si dilegua, a come il sole dilegua la nebbia del mattino, o ci si dilegua nella folla.
Non è una parola aulica. O meglio, affolla la nostra letteratura fino alle vette, e usandola nei nostri discorsi vediamo che li impreziosisce, ma ha dei natali umili, un taglio selvatico. È una storpiatura, maturata nei secoli, del latino deliquare, rispetto al quale ha sviluppato significati decisamente diversi — anche se la lessicografia mostra qualche incertezza nel catturare i significati di questo antecedente latino.
Il verbo di base liquare, oltre a ‘liquefare’, ha anche l’importante significato di ‘filtrare’: lo troviamo memorabilmente due versi sopra al carpe diem nella celebre ode di Orazio (vina liques et spatio brevi/ spem longam reseces, ‘filtra il vino, e ritaglia a uno spazio breve la lunga speranza’). Il deliquare rafforza e compie questo filtrare come un mescere, un travasare: si prende un liquido ottenebrato da impurità, o con elementi galleggianti che non gradiremmo ritrovarci in bocca bevendo, e si versa in un nuovo contenitore con un lino come filtro (particolarmente utile se si parla di vino, visto che dentro i Romani ci mettevano dentro di tutto, per profumarlo). Il risultato è una mescita più limpida.
Date queste premesse, non ci stupisce affatto che il primo significato figurato del deliquare sia stato quello di chiarire, spiegare. C’è una materia torbida, e io la verso in un’altra forma più chiara. Ma la storia che porta al dileguare italiano è meno pulita.
Quell’antico travasare slitta su una vera miriade di significati che gravitano sui concetti dello smorzare, del disperdere, dello scomparire, del distruggere, attestati dal Trecento in poi. Se proviamo a giustapporre l’immagine del vino che viene travasato e di noi che ci dileguiamo nella folla, forse riusciamo a cogliere che il filtrare è sempre un eliminare, un omogeneizzare: noi prima eravamo distinti da uno sfondo liquido, ma ciò che ci distingue viene meno quando ci dileguiamo. Rimane qualcosa di più omogeneo, liscio e piatto, sciolto e sparso, da cui qualcosa è stato dissipato, diradato, in cui c’è stata una riduzione, un affievolimento — perfino un po’ di rovina, che spiana l’asperità del castello sul paesaggio, un po’ di morte, che livella. O magari, come nota qualcuno, nel dileguare potrebbe emergere un significato meno evidente del deliquare, uno ‘sciogliere del tutto’, che pure ben si accorderebbe a questa serie di significati.
Qui sta il carattere straordinario del dileguare: un verbo popolare che è sempre stato vissuto in maniera libera e potente, frugando e interpretando ogni possibilità di questo suo vasto e complesso stemperare, e che ciò nondimeno non si è mai annacquato, si è anzi mantenuto preciso in quell’aura di inafferrabilità liquida che scivola via come acqua fra le dita, acqua sulla zolla riarsa, acqua nell’acqua.