Dileguare
di-le-guà-re (io di-lé-guo)
Significato Far sparire; scomparire (specie come intransitivo pronominale, ‘dileguarsi’)
Etimologia dal latino deliquare ‘travasare’, derivato di liquare ‘liquefare, filtrare’, con prefisso de-.
Parola pubblicata il 06 Ottobre 2020
C’è qualcosa di misterioso, nel dileguare, una cifra che si porta dietro attraverso una lunga trasformazione e che arriva al modo in cui nel momento del bisogno qualcuno si dilegua, a come il sole dilegua la nebbia del mattino, o ci si dilegua nella folla.
Non è una parola aulica. O meglio, affolla la nostra letteratura fino alle vette, e usandola nei nostri discorsi vediamo che li impreziosisce, ma ha dei natali umili, un taglio selvatico. È una storpiatura, maturata nei secoli, del latino deliquare, rispetto al quale ha sviluppato significati decisamente diversi — anche se la lessicografia mostra qualche incertezza nel catturare i significati di questo antecedente latino.
Il verbo di base liquare, oltre a ‘liquefare’, ha anche l’importante significato di ‘filtrare’: lo troviamo memorabilmente due versi sopra al carpe diem nella celebre ode di Orazio (vina liques et spatio brevi/ spem longam reseces, ‘filtra il vino, e ritaglia a uno spazio breve la lunga speranza’). Il deliquare rafforza e compie questo filtrare come un mescere, un travasare: si prende un liquido ottenebrato da impurità, o con elementi galleggianti che non gradiremmo ritrovarci in bocca bevendo, e si versa in un nuovo contenitore con un lino come filtro (particolarmente utile se si parla di vino, visto che dentro i Romani ci mettevano dentro di tutto, per profumarlo). Il risultato è una mescita più limpida.
Date queste premesse, non ci stupisce affatto che il primo significato figurato del deliquare sia stato quello di chiarire, spiegare. C’è una materia torbida, e io la verso in un’altra forma più chiara. Ma la storia che porta al dileguare italiano è meno pulita.
Quell’antico travasare slitta su una vera miriade di significati che gravitano sui concetti dello smorzare, del disperdere, dello scomparire, del distruggere, attestati dal Trecento in poi. Se proviamo a giustapporre l’immagine del vino che viene travasato e di noi che ci dileguiamo nella folla, forse riusciamo a cogliere che il filtrare è sempre un eliminare, un omogeneizzare: noi prima eravamo distinti da uno sfondo liquido, ma ciò che ci distingue viene meno quando ci dileguiamo. Rimane qualcosa di più omogeneo, liscio e piatto, sciolto e sparso, da cui qualcosa è stato dissipato, diradato, in cui c’è stata una riduzione, un affievolimento — perfino un po’ di rovina, che spiana l’asperità del castello sul paesaggio, un po’ di morte, che livella. O magari, come nota qualcuno, nel dileguare potrebbe emergere un significato meno evidente del deliquare, uno ‘sciogliere del tutto’, che pure ben si accorderebbe a questa serie di significati.
Qui sta il carattere straordinario del dileguare: un verbo popolare che è sempre stato vissuto in maniera libera e potente, frugando e interpretando ogni possibilità di questo suo vasto e complesso stemperare, e che ciò nondimeno non si è mai annacquato, si è anzi mantenuto preciso in quell’aura di inafferrabilità liquida che scivola via come acqua fra le dita, acqua sulla zolla riarsa, acqua nell’acqua.