SignificatoRetribuzione per una prestazione professionale
Etimologia voce dotta recuperata dal latino emolumentum, da emòlere ‘macinare completamente’, derivato di mòlere ‘macinare’ col prefisso ex- con valore di ‘completamente’.
Eh, quando si viene a parlare di conquibus, di valsente, di dovuto, di quanto, la lingua corre a cercare formule, se non coperte, almeno discrete, ma meglio eleganti, e magari perfino auliche: è uno degli ambiti in cui la delicatezza pare essere più rilevante — se la gioca giusto con qualche campo della fisiologia.
Questa delicatezza, questa discrezione si declina in una quantità di modi, con soluzioni più o meno sofisticate, e il sotto-ambito del compenso è particolarmente interessante.
Lo stesso ‘compenso’ si comporta in maniera abbastanza strana, rispetto al compensare, che di solito è un equilibrare qualcosa di negativo (forse ci rende semplicemente la visione tradizionale sincera per cui «il lavoro abbrutisce l’uomo»). Se ci aggiungiamo che la ricompensa è un contraccambio sì, ma per un’azione lodevole, la questione da intuitiva si fa cervellotica.
Il salario adotta dapprima la strategia di un alto grado di dottrina, col riferimento all’indennità per l’acquisto del sale di epoca antica — un paludamento non dappoco, anche se si è normalizzato (circola da quasi 800 anni). L’emolumento, quattrocentesco, si pone su questa falsariga.
Allora, va detto che riguardo all’emolumento, dal punto di vista etimologico, volano gli stracci. D’accordo che l’emolumentum sia derivato di emòlere ‘macinare completamente, fino in fondo’ (mòlere, come forse si annusa, è ‘macinare’, e qui il prefisso ex- ha il gagliardissimo valore di ‘pienamente’, come ad esempio in ‘esaudire’). Ma secondo alcune fonti l’emolumentum sarebbe stato la somma pagata per poter macinare, mentre per altre (più recenti e agguerrite) non sarebbe stato che il prodotto finale della macinazione, da cui il senso di profitto, di utile.
Ad ogni modo l’emolumento diventa la retribuzione (ma le sentite?, retribuzione, tutte parole con la cravatta) che si corrisponde per una prestazione professionale, magari continuativa ma soprattutto occasionale.
Ha il pregio di appartenere a un registro elevato e di avere una schiettezza dritta: c’è una persona competente che ha compiuto un lavoro per noi, e quindi le consegniamo la sua farina, il profitto. Dietro le particelle delle parcelle, le noterelle delle notule, stanno delle minimizzazioni artate e insincere, perfino preoccupanti (fa più paura un conticino da pagare, piuttosto che un conto). L’emolumento è diretto e si pone a un’altezza che non ha sbavature: altre soluzioni, come la mercede (magari evangelicamente giusta) o il guiderdone suonano un pochino troppo alte, e finiscono per coprire con troppa discrezione o troppa pompa — prestandosi all’ironia.
Eh, quando si viene a parlare di conquibus, di valsente, di dovuto, di quanto, la lingua corre a cercare formule, se non coperte, almeno discrete, ma meglio eleganti, e magari perfino auliche: è uno degli ambiti in cui la delicatezza pare essere più rilevante — se la gioca giusto con qualche campo della fisiologia.
Questa delicatezza, questa discrezione si declina in una quantità di modi, con soluzioni più o meno sofisticate, e il sotto-ambito del compenso è particolarmente interessante.
Lo stesso ‘compenso’ si comporta in maniera abbastanza strana, rispetto al compensare, che di solito è un equilibrare qualcosa di negativo (forse ci rende semplicemente la visione tradizionale sincera per cui «il lavoro abbrutisce l’uomo»). Se ci aggiungiamo che la ricompensa è un contraccambio sì, ma per un’azione lodevole, la questione da intuitiva si fa cervellotica.
Il salario adotta dapprima la strategia di un alto grado di dottrina, col riferimento all’indennità per l’acquisto del sale di epoca antica — un paludamento non dappoco, anche se si è normalizzato (circola da quasi 800 anni). L’emolumento, quattrocentesco, si pone su questa falsariga.
Allora, va detto che riguardo all’emolumento, dal punto di vista etimologico, volano gli stracci. D’accordo che l’emolumentum sia derivato di emòlere ‘macinare completamente, fino in fondo’ (mòlere, come forse si annusa, è ‘macinare’, e qui il prefisso ex- ha il gagliardissimo valore di ‘pienamente’, come ad esempio in ‘esaudire’). Ma secondo alcune fonti l’emolumentum sarebbe stato la somma pagata per poter macinare, mentre per altre (più recenti e agguerrite) non sarebbe stato che il prodotto finale della macinazione, da cui il senso di profitto, di utile.
Ad ogni modo l’emolumento diventa la retribuzione (ma le sentite?, retribuzione, tutte parole con la cravatta) che si corrisponde per una prestazione professionale, magari continuativa ma soprattutto occasionale.
Ha il pregio di appartenere a un registro elevato e di avere una schiettezza dritta: c’è una persona competente che ha compiuto un lavoro per noi, e quindi le consegniamo la sua farina, il profitto. Dietro le particelle delle parcelle, le noterelle delle notule, stanno delle minimizzazioni artate e insincere, perfino preoccupanti (fa più paura un conticino da pagare, piuttosto che un conto). L’emolumento è diretto e si pone a un’altezza che non ha sbavature: altre soluzioni, come la mercede (magari evangelicamente giusta) o il guiderdone suonano un pochino troppo alte, e finiscono per coprire con troppa discrezione o troppa pompa — prestandosi all’ironia.