SignificatoSpendere per un fine determinato; fornire a una rete di distribuzione
Etimologia voce dotta recuperata dal latino erogare ‘spendere, distribuire’, da rogare ‘chiedere’ col prefisso e(x)- ‘fuori, da’.
Parola particolarissima. Esiste in interstizi della vita e della lingua, prosperando in un registro che è sì burocratico e tecnico, e che anzi prende pieghe bizzarramente specifiche, ma che percola nella quotidianità. Una parola che unisce il portafogli dell’alta istituzione e la macchinetta del caffè: come?
Rogare è un verbo latino piuttosto famoso: è un ‘chiedere’ abbastanza solenne, che trascolora nell’interpellare e nel pregare. L’erogare avrebbe l’aria di un ‘chiedere fuori’ — e dato che l’erogare ci parla innanzitutto di uno spendere, potremmo figurarci un dai, caccia il lesso! Ma le cose stanno in maniera più elegante e civile.
L’erogare latino è un termine giuridico, e consiste nel chiedere dal popolo il permesso per una spesa pubblica, da coprire con la cassa dell’erario. Un permesso non dappoco, e una richiesta tutt’altro che secca — immaginiamo fin troppo bene le discussioni, tali nella Roma arcaica quali nelle nostre riunioni di quartiere, di paese, di condominio.
A incidere sull’immaginario però è l’esito dell’erogare: pagare. E non solo: le spese pubbliche sono complesse e articolate, e si sostanziano spesso in una serie di pagamenti — diciamo pure in una distribuzione (questa cosa sarà rilevante).
È così che fin dal Trecento parliamo di come si eroghino certe somme in beneficienza, di come venga decisa l’erogazione di un sussidio straordinario, di come il piano d’investimento possa contare sull’erogazione di ingenti somme da parte di una banca.
Notiamo la precisione: erogare è dare soldi; è dare soldi dall’alto, da una posizione con una certa copia di denaro (non ti erogo i miei due eurini che ho trovato sul fono dello zaino); è dare soldi dall’alto per un progetto determinato: difficilmente dirò che, per Natale, mi aspetto la danarosa prozia eroghi qualche busta gonfiotta — a meno di non sfruttare il sussiego dell’erogare a fini ironici.
Certo che però tutti questi versamenti di liquidità dell’erogare danno una non tenue impressione d’impianto idraulico e rubinetteria; se lucriamo poi la tradizionale prossimità dell’erogare col distribuire, ecco che la società ripristina l’erogazione del gas, il fontanello pubblico non eroga più acqua per via della siccità, e la macchinetta del caffè eroga un liquame che misto in pari dosi di zucchero è trangugiabile. L’erogare diventa un fornire, specie tramite una rete o una canalizzazione — non mi puoi erogare né aiuto né legna da ardere e nemmeno cibo, a meno che io non mi voglia rappresentare come una cavia o una bestia d’allevamento con un’alimentazione automatizzata. Posso però erogare certi servizi — se li immagino frutto di un complesso organismo fornitore, o anche solo gocciolare da una rete di tubature.
Sentiamo bene la finissima unicità dell’erogare, verbo che pare un mostro da bestiario, mezzo pagare danaroso, largo e occhiuto, mezzo somministrare mediante appositi apparati, che s’incista in prospetti di spesa, comunicazioni al pubblico e in libretti d’istruzioni — e come i mostri da bestiario, un po’ vicino un po’ lontano dalla vita vera.
Parola particolarissima. Esiste in interstizi della vita e della lingua, prosperando in un registro che è sì burocratico e tecnico, e che anzi prende pieghe bizzarramente specifiche, ma che percola nella quotidianità. Una parola che unisce il portafogli dell’alta istituzione e la macchinetta del caffè: come?
Rogare è un verbo latino piuttosto famoso: è un ‘chiedere’ abbastanza solenne, che trascolora nell’interpellare e nel pregare. L’erogare avrebbe l’aria di un ‘chiedere fuori’ — e dato che l’erogare ci parla innanzitutto di uno spendere, potremmo figurarci un dai, caccia il lesso! Ma le cose stanno in maniera più elegante e civile.
L’erogare latino è un termine giuridico, e consiste nel chiedere dal popolo il permesso per una spesa pubblica, da coprire con la cassa dell’erario. Un permesso non dappoco, e una richiesta tutt’altro che secca — immaginiamo fin troppo bene le discussioni, tali nella Roma arcaica quali nelle nostre riunioni di quartiere, di paese, di condominio.
A incidere sull’immaginario però è l’esito dell’erogare: pagare. E non solo: le spese pubbliche sono complesse e articolate, e si sostanziano spesso in una serie di pagamenti — diciamo pure in una distribuzione (questa cosa sarà rilevante).
È così che fin dal Trecento parliamo di come si eroghino certe somme in beneficienza, di come venga decisa l’erogazione di un sussidio straordinario, di come il piano d’investimento possa contare sull’erogazione di ingenti somme da parte di una banca.
Notiamo la precisione: erogare è dare soldi; è dare soldi dall’alto, da una posizione con una certa copia di denaro (non ti erogo i miei due eurini che ho trovato sul fono dello zaino); è dare soldi dall’alto per un progetto determinato: difficilmente dirò che, per Natale, mi aspetto la danarosa prozia eroghi qualche busta gonfiotta — a meno di non sfruttare il sussiego dell’erogare a fini ironici.
Certo che però tutti questi versamenti di liquidità dell’erogare danno una non tenue impressione d’impianto idraulico e rubinetteria; se lucriamo poi la tradizionale prossimità dell’erogare col distribuire, ecco che la società ripristina l’erogazione del gas, il fontanello pubblico non eroga più acqua per via della siccità, e la macchinetta del caffè eroga un liquame che misto in pari dosi di zucchero è trangugiabile. L’erogare diventa un fornire, specie tramite una rete o una canalizzazione — non mi puoi erogare né aiuto né legna da ardere e nemmeno cibo, a meno che io non mi voglia rappresentare come una cavia o una bestia d’allevamento con un’alimentazione automatizzata. Posso però erogare certi servizi — se li immagino frutto di un complesso organismo fornitore, o anche solo gocciolare da una rete di tubature.
Sentiamo bene la finissima unicità dell’erogare, verbo che pare un mostro da bestiario, mezzo pagare danaroso, largo e occhiuto, mezzo somministrare mediante appositi apparati, che s’incista in prospetti di spesa, comunicazioni al pubblico e in libretti d’istruzioni — e come i mostri da bestiario, un po’ vicino un po’ lontano dalla vita vera.