Misura
mi-sù-ra
Significato Rapporto fra una grandezza e un’altra di riferimento; dimensioni; quantità; misurazione; discrezione, moderazione, temperanza; provvedimento volto a un certo fine
Etimologia dal latino mensura, da mensus, participio passato di metìri ‘misurare’.
Parola pubblicata il 16 Ottobre 2023
L'italiano sostenibile - la Settimana della lingua italiana nel mondo 2023 (Polonia)
Su incarico dell'Istituto Italiano di Cultura di Cracovia, per la XXIII Settimana della lingua italiana nel mondo, da lunedì 16 a venerdì 20 ottobre vi proponiamo un ciclo di parole che contempla alcuni tagli del tema della sostenibilità ambientale (tema scelto dal Ministero per la Settimana), cercando i concetti che lo compongono nei meandri della nostra letteratura. La trattazione del termine è di Giorgio Moretti, gli approfondimenti letterari di Lucia Masetti.
Il fatto che una parola sia centrale per il pensiero in maniera stabile, non mutevole — insomma quando è un centro di gravità permanente — si nota abbastanza bene anche tramite l'etimologia.
Infatti sono parole che tendono a conservarsi quasi senza variazioni attraverso millenni d'uso, le diramazioni e derivazioni riguardano termini similmente centrali, e quando si approda a una radice ancestrale, notiamo che il significato è persistente. Il fatto che sia ricostruita la radice indoeuropea me- col significato di 'misurare', è insieme un dato ricco di meraviglia e di naturalezza.
Dentro ci troviamo l'atto mentale del rapportare grandezze, del determinare una dimensione (etimologicamente, ramo della stessa pianta). Capiamo bene che è un criterio di valutazione non solo primario, ma originario (e non ci sorprende — no, non è vero, lo fa — che di qui scaturiscano il metro e il mese).
Naturalmente un concetto del genere non poteva non acquisire anche uno spazio morale: la cugina greca mêtis è avvedutezza, e la nostra ‘misura’ è discrezione, moderazione, tolleranza, senso del limite. Un sinolo di facoltà intellettuale e virtù, determinante per la vita singolare e comunitaria. E in maniera altrettanto conseguente la misura si fa anche azione calcolata, misurata, provvedimento volto a un certo fine.
Come tante parole centrali pare ordinaria, perfino superficiale, e invece è qui che troviamo — se c'è — un affaccio sulla genesi di noi e della nostra mente.
Firenze, nel Trecento, è una piccola New York: fervente di commerci e di cantieri, con tanto di nascente Wall Street. In questo secolo infatti le banche si sviluppano in modi mai visti, lanciandosi anche in investimenti audaci. La gente spende con entusiasmo e gli abitanti accorrono a frotte dai dintorni, cosicché la città deve estendersi sempre più lontano dalla “cerchia antica” delle prime mura.
Dante, pur non capendo molto questi cambiamenti, li disapprova cordialmente. Perciò nella Commedia immagina di dialogare con un proprio antenato, Cacciaguida, il quale si dilunga a spiegargli quanto era bella Firenze ai suoi tempi.
Questo moralismo nostalgico può suonare irritante, eppure qualche bersaglio lo centra. Primo: il rischio che, in una “società dell’apparire”, il vestito diventi più importante della persona che lo porta. Così entrambi, paradossalmente, perdono di valore: le persone sono stimate in base al prezzo di ciò che possiedono, mentre le cose sono godute finché procurano prestigio e poi dissipate con superficialità.
Secondo: la difficoltà a rapportarsi col tempo. Nell’antica Firenze il tempo era scandito dai rintocchi delle campane, che ancora si sentono risuonare (“toglie ancora e terza e nona”). Il che suggerisce un tempo significativo, occupato da un lavoro che è preghiera (perché contribuisce alla creazione in corso) e da una preghiera che è lavoro (perché la crescita interiore si riversa in nuovi frutti per tutti). Nella città moderna invece il tempo sembra diventare più vuoto e insieme più ossessionante: è risparmiato secondo per secondo, eppure non si sa bene cosa farne.
Terzo: la tendenza a valutare tutto, inclusi i rapporti famigliari, in un’ottica utilitaristica. I figli “spaventano” perché sono visti anzitutto come una spesa, in particolare le femmine, dice Cacciaguida, perché la somma necessaria per maritarle è in continua crescita. Viceversa l’età minima per il matrimonio si abbassa sempre più, il che può richiamare la nostra ansia di progettare la vita dei bambini come fossero investimenti di lungo periodo, caricandoli di aspettative che non sempre rispecchiano i loro desideri.
Un quarto aspetto è lo scollamento tra speculazioni ed economia reale, che, una quarantina d’anni dopo la stesura della Commedia, porterà a una crisi terribile, col fallimento delle principali banche fiorentine. Il tema non è trattato da Cacciaguida, ma già nell’Inferno Dante aveva condannato duramente i “violenti contro l’arte”. Coloro, cioè, che anziché plasmare le cose col proprio lavoro, producendo un accrescimento di valore, si limitano a far girare il denaro, speculando sulle disgrazie altrui e costruendo effimeri castelli di carte.
Tutte queste derive hanno, per Dante, un’unica radice: la perdita della misura, che non è semplicemente l’eccesso, ma un errore di prospettiva che stravolge il senso delle cose. Poco importa che prenda la forma dell’avidità o dello spreco (avari e prodighi condividono, nell’Inferno, la medesima pena). La soluzione sta in uno sguardo più umano ed equilibrato, che restituisca le cose al loro posto. Il denaro può così tornare ad essere non un fine da perseguire a tutti i costi, bensì un mezzo: uno strumento per costruire una vita felice per sé e per gli altri.