SignificatoRiscattare, liberare da qualcosa che opprime, umilia, porta dolore
Etimologia voce dotta recuperata dal latino redìmere ‘ricomprare’, derivato di èmere ‘comperare’ col prefisso red- ‘di nuovo’.
Ci sono alcune parole che si sono guadagnate un prestigio unico, e davanti alle quali si può restare un po’ in soggezione: proprio il loro peso può scoraggiarne l’uso. Ma a guardarle bene si può capire insieme perché sono elevate e perché sono vicine alla nostra esperienza.
La dimensione di questo alto verbo è tutta morale — e anzi, è una dimensione morale delle più delicate e ampie, che nientemeno coinvolge la colpa e la liberazione dalla colpa, l’oppressione e la liberazione dall’oppressione, anche in una dimensione soteriologica, cioè di salvezza.
E però andando a vedere i vasti significati del redimere latino, scopriamo che è originariamente un terragno ‘ricomprare’. Ad esempio si poteva redimere qualcuno dai banditi, o si poteva redimere un bene venduto nel momento di necessità. Sembrerebbe un po’ prosaico, vero, rispetto al redimere a cui siamo abituati?
In effetti gran parte del successo del redimere, nel latino posteriore alla caduta dell’Impero, si deve al suo uso in ambito cristiano — pensiamo alla centralità della redenzione, al ruolo di Cristo quale redentore. Il redimere si fa addirittura escatologico. Ma come notano attenti etimologi, questo verbo poteva avere una dimensione morale e spirituale già in ambito pagano, e la continuità concettuale fra il ricomprare e l’affrancare ci è consueta: il redimere è un riscattare, e il riscattare è un liberare — così quel ricomprare terra terra diventa l’azione del liberare sommo che conosciamo, quasi sempre serio e impegnato.
Così una scelta partigiana può redimerci dall’ignavia, la coltivazione di ragione e compassione può redimere una comunità dal terrore, mentre con una gentilezza sorridente e arguta ci redimiamo dalla figura cretina che avevamo fatto.
La profondità di questo verbo sta nella purezza della sua dimensione umana: in maniera semplice ma non naïfadombra uno stato originario giusto e pulito, storto poi in uno stato gravoso, umiliante, doloroso — e ne segna l’uscita a un certo prezzo.
Non è l’unica parola che abbia seguito una parabola del genere: anche allo stesso affrancare (specie con la recessione dell’uso delle lettere da affrancare) resta quasi solo un respiro morale, condiviso anche dall’emancipare. Ma hanno proiezioni e coinvolgono liberazioni più esterne: il redimere sa toccare corde decisamente più intime.
Ci sono alcune parole che si sono guadagnate un prestigio unico, e davanti alle quali si può restare un po’ in soggezione: proprio il loro peso può scoraggiarne l’uso. Ma a guardarle bene si può capire insieme perché sono elevate e perché sono vicine alla nostra esperienza.
La dimensione di questo alto verbo è tutta morale — e anzi, è una dimensione morale delle più delicate e ampie, che nientemeno coinvolge la colpa e la liberazione dalla colpa, l’oppressione e la liberazione dall’oppressione, anche in una dimensione soteriologica, cioè di salvezza.
E però andando a vedere i vasti significati del redimere latino, scopriamo che è originariamente un terragno ‘ricomprare’. Ad esempio si poteva redimere qualcuno dai banditi, o si poteva redimere un bene venduto nel momento di necessità. Sembrerebbe un po’ prosaico, vero, rispetto al redimere a cui siamo abituati?
In effetti gran parte del successo del redimere, nel latino posteriore alla caduta dell’Impero, si deve al suo uso in ambito cristiano — pensiamo alla centralità della redenzione, al ruolo di Cristo quale redentore. Il redimere si fa addirittura escatologico. Ma come notano attenti etimologi, questo verbo poteva avere una dimensione morale e spirituale già in ambito pagano, e la continuità concettuale fra il ricomprare e l’affrancare ci è consueta: il redimere è un riscattare, e il riscattare è un liberare — così quel ricomprare terra terra diventa l’azione del liberare sommo che conosciamo, quasi sempre serio e impegnato.
Così una scelta partigiana può redimerci dall’ignavia, la coltivazione di ragione e compassione può redimere una comunità dal terrore, mentre con una gentilezza sorridente e arguta ci redimiamo dalla figura cretina che avevamo fatto.
La profondità di questo verbo sta nella purezza della sua dimensione umana: in maniera semplice ma non naïf adombra uno stato originario giusto e pulito, storto poi in uno stato gravoso, umiliante, doloroso — e ne segna l’uscita a un certo prezzo.
Non è l’unica parola che abbia seguito una parabola del genere: anche allo stesso affrancare (specie con la recessione dell’uso delle lettere da affrancare) resta quasi solo un respiro morale, condiviso anche dall’emancipare. Ma hanno proiezioni e coinvolgono liberazioni più esterne: il redimere sa toccare corde decisamente più intime.
(E ricordiamolo: il redimito non c’entra niente.)