Renitente
re-ni-tèn-te
Significato Che oppone resistenza, che rifiuta di conformarsi alla volontà altrui o a obblighi
Etimologia dal latino renitens, participio presente di reniti ‘resistere, rifiutarsi’, derivato di niti ‘puntarsi, sforzarsi’.
Parola pubblicata il 29 Maggio 2017
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Questa parola è piuttosto trascurata: suona consueta in espressioni stereotipate quale ‘renitente alla leva’, ma per scarsa dimestichezza si presta a malapropismi diffusi (ad esempio è spesso confusa con ‘reticente’). Eppure è forte di un significato intenso ed esatto, eppure può essere usata facilmente.
Il renitente non ha l’incertezza ritrosa del restio o del riluttante, non è chiuso e sordo come il refrattario, non è circoscritto come il disubbidiente né generale come il resistente, e non evoca l’immagine agguerrita e decrepita del ribelle. La qualità del renitente prende corpo in uno sforzo contrario, in un puntarsi chiaro e limpido, prendendo una netta posizione: e tale qualità si traduce relazionalmente in un opporre resistenza, nel rifiuto di conformarsi a leggi e volontà e consigli altrui - nel bene e nel male. Mi mostro renitente davanti alla lucrosa proposta che però mi impone un compromesso morale, l’autore è renitente a modificare il suo testo secondo le dritte dell’editore; si ammira la fibra di chi è renitente alla mala sorte e si biasima il vicino renitente alle basilari regole di urbanità; e dopo l’infortunio si devono fare i conti con una gamba renitente.
Una parola da tenere pronta, segno di un pensare di un parlare raffinato.
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(G. Leopardi, La ginestra, vv. 297-317)
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco
[…] E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle
[…] Tanto meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
Nell’ultimo poema leopardiano la ginestra rappresenta un modello di vita ideale. Cresciuta sulle pendici del Vesuvio, è destinata prima o poi a morire sotto la lava; tuttavia accetta la sua sorte senza fare resistenza (“non renitente”), ossia senza supplicare vigliaccamente di essere risparmiata, e senza illudersi orgogliosamente di essere eterna.
Già Seneca, del resto, rimproverava la cecità degli uomini: “Temete tutto come mortali, ma bramate tutto come immortali.”. La ginestra è l’esatto rovesciamento di questa prospettiva: riconosce il proprio limite, ma al tempo stesso non cede alla paura. Per questo è meno folle (“inferma”) dell’uomo.
Non si tratta, comunque, di una prospettiva fatalista: al contrario, Leopardi propone una sorta di eroismo della fragilità.
Come la gran parte delle persone su questa terra, la ginestra abita in un deserto. La sua esistenza è sofferta e solitaria, e sembra governata solamente dal caso; l’unica certezza è che presto o tardi arriverà la morte.
Eppure la ginestra oppone davvero al deserto una forma di resistenza: il suo profumo. Pur senza vedere un significato nel suo esistere, si ostina a offrire se stessa: come un fedele soldato, non è “renitente” al suo compito, anche se non lo capisce.
E il suo compito sta nel diffondere bellezza attorno a sé, cercando ogni giorno di addolcire il deserto. Di portare magari un sorriso, un raggio di luce nella vita altrui: un piccolo miracolo, umile e straordinario al tempo stesso.
Dunque, per Leopardi, il riconoscimento del limite sposta il focus da se stessi all’altro, dalla pretesa al dono. Anche se la natura è “matrigna”, resta almeno il conforto del rapporto con i fratelli. E resta la necessità di lottare, come si può, per profumare la vita di bellezza. O, come scrive Calvino, “cercare […] chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”