SignificatoNell’antica Roma, sistema di teli usato per ombreggiare anfiteatri e simili luoghi aperti; sipario, tenda, velo, sistema di veli, anche in senso figurato
Etimologia voce dotta recuperata dal latino velarium, derivato di velum ‘vela, tessuto’.
Questa parola ha un significato generale di grande respiro, che segue per ampiezza il velo da cui nasce. Però, sul suo equilibrio, pesa l’ingombro di un significato molto particolare, che in quanto a potenza immaginifica è davvero notevole, per quanto semplice.
Infatti si trova scritto sui dizionari che il velario è un’ampia tenda che nell’antica Roma copriva gli anfiteatri e i teatri, per proteggere gli spettatori dal sole e dalla pioggia. Però è una definizione che forse non arriva, che non riesce a darci la dimensione di che prodigio fosse il velario, di quale fosse la rete di saperi in cui si collocava; inoltre è una chiave capace di mostrare di nuovo la vita di luoghi che spesso (non sempre) sono sassi morti.
I teatri di oggi sono luoghi appartati e solidamente chiusi. Invece ai tempi i giochi e gli spettacoli, e anche molte assemblee e raduni d’ogni genere, si svolgevano all’aperto; e come sappiamo bene, avere delle coperture mobili capaci di garantire un ombreggiamento, o una qualche protezione dalla pioggerella, è gran cosa. Il velarium era un manufatto di difficile produzione e uso, che veniva steso su anfiteatri e teatri sì, ma anche su piazze intere. La sua tecnologia è strettamente legata al mondo della marineria: le vele sono state le prime vaste superfici di tessuto che abbiamo creato, e dobbiamo notare che ‘vela’ è il primo significato del latino velum (da una radice indoeuropea che indica un tessere).
Il velarium era costituito di vele di canapa prima, di lino o perfino seta poi, cucite insieme e quindi tese con un complesso sistema di travi, corde, pesi, pulegge, forse anche catene, che ancora oggi, specie nei casi di velari più grandi, non ci è del tutto chiaro; ma se pensiamo che l’ellisse del Colosseo ha assi di oltre centottanta e centocinquanta metri, realizziamo perché il velario di questo anfiteatro dovesse essere manovrato dalla cornice superiore (che infatti è cieca, senza fornici, e invece munita di molti punti d’ancoraggio per travi) da un distaccamento di centinaia di marinai della flotta di Capo Miseno. Dopotutto erano i marinai i migliori a maneggiare corde, catene e vele. Va detto che in realtà è fortemente dubbio che i velari potessero qualcosa contro la pioggia, anzi è probabile che in caso di pioggia venissero ritirati.
Ora, questo velario si direbbe un termine storico, ma non mancano le attualizzazioni di alcuni usi simpatici, vezzosi e un po’ altisonanti che ne fanno in senso ampio la copertura di luoghi aperti — per cui si parla di velari di vetro a coprire mercati, velari liberty che chiudono cortili interni, velari aggiunti che rendono vivibili zone altrimenti roventi o esposte del complesso di edifici.
Noi però qui parliamo di velarium e non di velum: il suffisso -arius/-arium racconta in particolare strumenti e luoghi. Possiamo astrarre il velario come velame, apparato di veli. Concreto e figurato.
Possiamo parlare del velario che definisce il perimetro di un palco in mezzo al prato, dei velari di nebbia che escludono dalla nostra vista isole o montagne, dell’intimità che nel bosco ci dà il velario della canopia o dei rami fitti e bassi — ma anche del velario retorico di un discorso dietro a cui intuiamo un’intenzione occulta, del nulla che c’è dietro il velario delle chiacchiere. È un po’ un sipario, ma si affretta meno alle vaste implicazioni teatrali, e non ha lo stretto orizzonte d’arredamento del tendaggio.
Una parola di eleganza squisita, ma alla fine piuttosto semplice.
Questa parola ha un significato generale di grande respiro, che segue per ampiezza il velo da cui nasce. Però, sul suo equilibrio, pesa l’ingombro di un significato molto particolare, che in quanto a potenza immaginifica è davvero notevole, per quanto semplice.
Infatti si trova scritto sui dizionari che il velario è un’ampia tenda che nell’antica Roma copriva gli anfiteatri e i teatri, per proteggere gli spettatori dal sole e dalla pioggia. Però è una definizione che forse non arriva, che non riesce a darci la dimensione di che prodigio fosse il velario, di quale fosse la rete di saperi in cui si collocava; inoltre è una chiave capace di mostrare di nuovo la vita di luoghi che spesso (non sempre) sono sassi morti.
I teatri di oggi sono luoghi appartati e solidamente chiusi. Invece ai tempi i giochi e gli spettacoli, e anche molte assemblee e raduni d’ogni genere, si svolgevano all’aperto; e come sappiamo bene, avere delle coperture mobili capaci di garantire un ombreggiamento, o una qualche protezione dalla pioggerella, è gran cosa. Il velarium era un manufatto di difficile produzione e uso, che veniva steso su anfiteatri e teatri sì, ma anche su piazze intere. La sua tecnologia è strettamente legata al mondo della marineria: le vele sono state le prime vaste superfici di tessuto che abbiamo creato, e dobbiamo notare che ‘vela’ è il primo significato del latino velum (da una radice indoeuropea che indica un tessere).
Il velarium era costituito di vele di canapa prima, di lino o perfino seta poi, cucite insieme e quindi tese con un complesso sistema di travi, corde, pesi, pulegge, forse anche catene, che ancora oggi, specie nei casi di velari più grandi, non ci è del tutto chiaro; ma se pensiamo che l’ellisse del Colosseo ha assi di oltre centottanta e centocinquanta metri, realizziamo perché il velario di questo anfiteatro dovesse essere manovrato dalla cornice superiore (che infatti è cieca, senza fornici, e invece munita di molti punti d’ancoraggio per travi) da un distaccamento di centinaia di marinai della flotta di Capo Miseno. Dopotutto erano i marinai i migliori a maneggiare corde, catene e vele. Va detto che in realtà è fortemente dubbio che i velari potessero qualcosa contro la pioggia, anzi è probabile che in caso di pioggia venissero ritirati.
Ora, questo velario si direbbe un termine storico, ma non mancano le attualizzazioni di alcuni usi simpatici, vezzosi e un po’ altisonanti che ne fanno in senso ampio la copertura di luoghi aperti — per cui si parla di velari di vetro a coprire mercati, velari liberty che chiudono cortili interni, velari aggiunti che rendono vivibili zone altrimenti roventi o esposte del complesso di edifici.
Noi però qui parliamo di velarium e non di velum: il suffisso -arius/-arium racconta in particolare strumenti e luoghi. Possiamo astrarre il velario come velame, apparato di veli. Concreto e figurato.
Possiamo parlare del velario che definisce il perimetro di un palco in mezzo al prato, dei velari di nebbia che escludono dalla nostra vista isole o montagne, dell’intimità che nel bosco ci dà il velario della canopia o dei rami fitti e bassi — ma anche del velario retorico di un discorso dietro a cui intuiamo un’intenzione occulta, del nulla che c’è dietro il velario delle chiacchiere. È un po’ un sipario, ma si affretta meno alle vaste implicazioni teatrali, e non ha lo stretto orizzonte d’arredamento del tendaggio.
Una parola di eleganza squisita, ma alla fine piuttosto semplice.