Carato
Parole semitiche
ca-rà-to
Significato Unità di peso delle pietre preziose; indice di purezza delle leghe auree; in generale, un ventiquattresimo
Etimologia dall’arabo qirat, ventiquattresima parte di una moneta, il dirham, a sua volta dal greco keration ‘carruba’, i cui semi venivano usati per pesare preziosi – diminutivo di keras ‘corno’.
- «È un tartufo che si vede a carati.»
Parola pubblicata il 08 Dicembre 2023
Parole semitiche - con Maria Costanza Boldrini
Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.
Questa è una parola rotonda, brillante e sofisticata. Si attaglia ad un mondo, quello della gioielleria, dei più esclusivi. Eppure, ha radici umili, agricole, e a livello linguistico è un bell’esempio di cavallo di ritorno, che dal greco passa nell’arabo e torna nelle lingue indoeuropee con eleganza e raffinatezza.
Andiamo con ordine: la cultura popolare attribuiva ai semi che si trovano nella carruba, legume dalla forma ricurva che ricorda quella di un piccolo corno, la qualità di essere tutti identici: non c’era migliore metro per pesare oggetti piccoli e preziosi, pietre e metalli che necessitavano di misurazioni estremamente precise. Parliamo di tempi in cui le misure erano un problema: risultavano sempre approssimative e l’universalità a cui siamo abituati noi, con metri, calibri e grammi, era di là da venire.
Ovviamente questo essere identici l’uno all’altro dei semi di carruba era solo un’impressione, ma nei secoli abbiamo conservato l’idea al centro di questo ragionamento e il termine ad essa legato, agganciando il peso del carato al sistema metrico decimale, individuandolo in 0,2 grammi.
Ma il carato non è solo questo: esiste una seconda accezione, che comunque finisce sempre per bazzicare la gioielleria, quella di ‘ventiquattresima parte’. Il qirat arabo aveva un significato monetario, maturato a partire dalla carruba coi suoi semi: indicava la ventiquattresima parte del dirham, celebre moneta araba del medioevo. Per questo i carati aurei si contano in ventiquattresimi, e si riferiscono al grado di purezza dell’oro: un’oncia d’oro a diciotto carati contiene diciotto parti d’oro e sei parti di altri metalli – quello a ventiquattro è puro.
A livello etimologico i passaggi sono interessanti: si parte dal concetto di corno, keras, a cui assomiglia il frutto dell’albero carrubo. Ad esso i greci diedero il nome keration (imparentato, ovviamente, con la cheratina delle unghie e dei capelli). Gli arabi lo pigliarono e lo trasformarono in qirat, che a casa nostra divenne carato.
È incredibile che gli usi di questa parola, così diversi e consolidati, abbiano origine da passaggi che per noi oggi sono così inconcepibili: dal piccolo corno della carruba a moneta araba a ventiquattresimo per antonomasia – tanto che perfino gli armatori o gli investitori di capitali dividevano e compravano navi e titoli in carati intendendo ventiquattresimi dell’intero.
Ed oggi ponderare la caratura di un’idea, di una persona, di un’opera, resta il giudizio importante del suo concreto valore, meticoloso come quello del gioielliere.