Angoscia
an-gò-scia
Significato Stato di agitazione, di affanno, di ansia che si accompagna a preoccupazione e paura; in filosofia, sgomento davanti al confronto fra la propria limitatezza e le possibilità infinite del mondo
Etimologia dal latino angustia ‘strettezza’, da àngere ‘stringere’.
Parola pubblicata il 10 Gennaio 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Bestia e biscia, raggio e razzo, causa e cosa, regione e rione, angustia e angoscia: cos’hanno in comune? Sono coppie di allotropi, parole che – pur partendo dal medesimo etimo – hanno sviluppato forma e significato differenti, in genere perché una delle due è voce dotta, l’altra no. Il latino angustia ‘strettezza’ deriva da angere ‘stringere’ (da cui anche angina), perciò le varie accezioni dell’angustia sono altrettante declinazioni della strettezza: mancanza di spazio; scarsità di risorse; stretta al cuore. Solo quest’ultima però è propria dell’angoscia, che si è specializzata come oppressione tutta interiore, psicofisica.
Dalla stessa radice di angoscia deriva anche ansia, che ha con la sorella un rapporto interessante: noi tendiamo a distinguerle, ritenendo l’angoscia una cosa più grave, complessa ed essenziale, non domabile da un qualunque ansiolitico. Eppure la distinzione non pare capitale, tant’è che in tedesco c’è un unico termine, Angst, che significa paura, ansia e angoscia. In effetti il significato esistenziale che diamo all’angoscia, in quanto condizione umana e tratto peculiare dello stare al mondo, è relativamente recente: risale al secondo dopoguerra, quando l’esistenzialismo – filosofia che si concepiva come meditazione sul senso dell’esistenza individuale piuttosto che come edificazione di sistemi – dominava la cultura europea, diventando persino fenomeno sociale, moda intellettuale.
Davvero un’ironia della sorte, visto che Søren Kierkegaard (1813-1855) – il pensatore danese che ha tematizzato per primo l’angoscia nella filosofia moderna, ed è ritenuto uno dei principali precursori dell’esistenzialismo – tutto era fuorché uno che seguisse le mode, o ambisse a crearne. Anzi, passò buona parte della sua breve vita a fustigare l’ipocrisia, la falsità e il conformismo ovunque si annidassero, tanto in campo religioso quanto filosofico. Quando, nel 1854, morì il vescovo Mynster e il suo successore ne tessé l’elogio definendolo «testimone della verità»,Kierkegaard insorse: testimonio della verità non può essere chi cede a compromessi e benedice l’ordine costituito, ma chi è «misconosciuto, odiato, aborrito, disprezzato, schernito». Il cristianesimo autentico è paradosso, scandalo, «lotta aperta con il mondo».
Anche la filosofia del suo tempo, dominata dall’idealismo hegeliano, gli pare detestabile, immersa com’è nella sua pretesa di essere ‘pensiero puro’, che si occupa solo di concetti, idee, disinteressandosi totalmente dell’unica cosa che conti: l’esistenza individuale, che è una dimensione eminentemente umana: le cose e gli animali sono, solo l’uomo esiste. E l’esistenza è «continuo divenire», in cui nulla è stabile, certo e determinato; è il regno della possibilità e della libertà. Ma questa condizione porta all’angoscia – che è «vertigine della libertà» – perché la possibilità assoluta è possibilità di tutto e niente, del bene e del male, davanti ai quali siamo chiamati ad una scelta che ha la forma di un aut-aut, un’alternativa tra opzioni radicalmente inconciliabili. Esistere significa scegliere: è la scelta etica a renderci realmente umani, Singoli e non massa.
Certo, si può restare in quella che Kierkegaarddefinisce vita estetica, in cui ognuno «è immediatamente ciò che è», vive nell’istante, soddisfacendo tutti i propri impulsi. Ma questa è una non-scelta, un «lasciarsi andare», un barcamenarsi nel mare delle infinite possibilità senza sceglierne mai davvero nessuna, senza stabilità, senza costruzione di un vero Sé. Facilmente, una simile superficialità e inconsistenza porta alla noia e alla disperazione. Da qui la decisione di passare alla vita etica, quella del padre di famiglia e cittadino responsabile e operoso. Ma anch’essa è destinata allo scacco, perché i valori e lo stile di vita a cui «l’uomo etico» aderisce sono collettivi, anonimi, conformistici e perciò inautentici. Quando ne diviene consapevole, l’uomo etico sprofonda nell’angoscia.
Nell’angoscia Kierkegaard si pettinava ben di rado, e aveva però un volto tutt’altro che cupo (l’immagine è basata su un bozzetto di ritratto che gli fece suo cugino Niels Christian forse nel 1840 — rielaborata con Midjourney).
Insomma, gli umani per Kierkegaard sembrano stretti in una morsa: da una parte la disperazione, la «malattia mortale», che inerisce al rapporto con sé stessi come percezione della propria insufficienza ontologica; dall’altra l’angoscia, che caratterizza il rapporto col mondo in quanto possibilità. Entrambe, peraltro, secondo il Nostro sono benefiche, perché spingono gli umani a progredire. L’angoscia, in particolare, «distrugge tutte le finitezze», scaccia «i pensieri finiti e gretti». Ma come se ne esce? Con la fede: abbandonando l’illusione dell’autosufficienza e ammettendo che l’unico modo per essere sé stessi è riconoscersi dipendenti da Dio. Il singolo può essere sé stesso e libero solo se si fonda sull’Assoluto.
Nel Novecento, i filosofi esistenzialisti non condivideranno la prospettiva e la soluzione religiosa di Kierkegaard, ma lo seguiranno nel concepire l’angoscia come costitutiva della condizione umana, conseguenza del suo essere assoluta libertà e possibilità radicale, tesa a tutto e protesa al Nulla. Che poi è ciò che ognuno di noi sa benissimo, filosofo o no: come ha scritto Emil Cioran, «L’Angoscia era merce corrente già al tempo delle caverne. Ci possiamo figurare il sorriso dell’Uomo di Neandertal se avesse previsto che un giorno sarebbero venuti dei filosofi a reclamarne la paternità».