Fede
fé-de
Significato Adesione incondizionata, che non richiede prove, a un valore, a un concetto, a una verità; complesso di principi; fiducia; attestato; anello nuziale
Etimologia dal latino fides ‘fiducia, credenza, promessa’.
Parola pubblicata il 22 Marzo 2022
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Non è proprio un matrimonio celebrato in cielo, quello tra fede e filosofia. La fides latina, corrispondente alla pistis greca, era la fiducia, il credito dato a qualcuno, nonché ciò da cui proviene questa fiducia, ossia la buona fede, la lealtà, e anche la parola data, la promessa, la garanzia: perciò chiamiamo ‘fede’ l’anello nuziale, e scriviamo ‘in fede’ prima di firmare una dichiarazione. Ma la filosofia cerca la verità, non la fiducia; il suo motto è Amicus Plato, sed magis amica veritas: Platone (o chiunque altro) mi è amico, ma la verità lo è ancor più. E infatti la pistis, la credenza, per Platone apparteneva alla sfera dell’opinione (doxa), non della scienza (epistème). A risultare problematica, però, è soprattutto la fede in senso religioso, specie quando si tratti di una religione rivelata, che implica l’accettazione a priori di certi dogmi, giacché la filosofia è per sua natura ricerca libera, autonoma e senza limiti.
Nessuna sorpresa, quindi, che sin dall’inizio dell’era cristiana i rapporti tra la nuova fede e la filosofia greca siano stati travagliati. Paolo di Tarso sottolineava il carattere ‘scandaloso’ della fede cristiana, definendo la ragione umana ‘insensatezza’ agli occhi di Dio; per Tertulliano, uno dei primi filosofi cristiani, Gerusalemme (la fede) e Atene (la filosofia) non hanno nulla da spartire, e anzi quest’ultima è nient’altro che un impaccio: per arrivare a Dio è sufficiente avere un’anima semplice, e una verità di fede è tanto più certa quanto più appare impossibile (posizione riassunta in seguito come credo quia absurdum, ‘credo in quanto è assurdo’).
Eppure, per i maggiori pensatori cristiani successivi non solo filosofia e religione erano conciliabili, ma addirittura la ragione poteva corroborare la fede. Si deve a Agostino d’Ippona, ad esempio, la doppia affermazione credo ut intelligam (credo per capire), perché la fede è condizione per comprendere le verità rivelate, e intelligo ut credam (capisco per credere), perché non può esistere fede senza pensiero. La fede è il punto di partenza, ma quello di arrivo è la comprensione razionale. A questa posizione si attennero grosso modo i filosofi cristiani medioevali, pur con qualche sfumatura: Anselmo d’Aosta accentuava il ruolo ancillare della filosofia rispetto alla teologia, anteponendo il credere all’intelligere; per Tommaso d’Aquino ragione e filosofia sono solo ‘preamboli della fede’ – le verità razionali essendo limitate e parziali rispetto a quelle di fede – ma queste ultime, ancorché non dimostrabili razionalmente, non devono essere razionalmente confutabili.
Non tutti però erano convinti della perfetta conciliabilità di fede e ragione, teologia e filosofia: da una parte c’erano i filosofi scolastici, formatisi nelle scuole cattedrali e in seguito nelle università, dove i testi sacri venivano sottoposti a dispute, ovvero messi in discussione mediante la dialettica, l’argomentazione filosofica; dall’altra, c’era chi vedeva in tale modo di procedere il pericoloso frutto di una superbia intellettuale che rischiava di portare dritto allo scetticismo. Il contrasto tra questi due tipi antitetici di pensatori cristiani è perfettamente incarnato da Pietro Abelardo e Bernardo di Chiaravalle.
Abelardo (1079-1142) era un docente brillante e irriverente, idolo di folle di studenti che per lui accorrevano a Parigi da ogni parte d’Europa – e tra essi, com’è noto, Eloisa, dalla quale ebbe un figlio a cui diede significativamente il nome di uno strumento astronomico, Astrolabio. Campione assoluto di dialettica, Abelardo era fermamente convinto che a nulla si dovesse credere senza averlo prima capito (per lui, insomma, valeva soltanto l’intelligo ut credam); e a chi gli intimava di attenersi all’autorità delle Scritture e dei Padri della Chiesa, rispondeva tagliente che logica e dialettica servivano appunto a capire, svelandone le contraddizioni, a quali autorità affidarsi. Ce n’era abbastanza per suscitare la reazione di Bernardo, piissimo fondatore dell’abbazia di Clairvaux, per il quale Dio era da cercare dentro di sé e la fede non aveva alcun bisogno di affannosi quanto vani tentativi di dimostrazione. Peraltro, Bernardo si adoperò – riuscendoci – per far condannare dalla Chiesa alcuni scritti di Abelardo, che per discolparsi si mise in viaggio per Roma, morendo però nel tragitto.
A sinistra l’assertivo Abelardo, a destra il mellifluo Bernardo.
Il disperato sforzo di Abelardo nel rivendicare la libera ricerca restando all’interno della Chiesa sarà reso vano dai secoli: a poco a poco, i filosofi si convincono che filosofia e teologia non devono necessariamente procedere di pari passo, finché, nei primi decenni del Trecento, Guglielmo di Ockham sentenzia che la teologia non è e non può essere una scienza, perché le verità di fede e quelle di ragione sono incommensurabili. Credo et intelligo. Ormai, il temporale e lo spirituale si stanno divaricando: la fede, da collettiva, si fa sempre più individuale, privata; la secolarizzazione avanza. Il Medioevo è agli sgoccioli.