Travaglio
La strana coppia
Str.Cop. Francese
tra-và-glio
Significato Pena, sofferenza, afflizione; insieme dei fenomeni dolorosi che accompagnano il parto
Etimologia attraverso il francese travail, dal latino medievale trepalium, nome di uno strumento di tortura.
Parola pubblicata il 12 Maggio 2020
La strana coppia - con Salvatore Congiu
Parole sorelle, che dalla stessa origine fioriscono in lingue diverse, possono prendere le pieghe di significato più impensate. Con Salvatore Congiu, insegnante e poliglotta, un martedì su due vedremo una di queste strane coppie, in cui la parola italiana si confronterà con la sorella inglese, francese, spagnola o tedesca.
“Il lavoro nobilita l’uomo”: tutti conosciamo questa temeraria sentenza. Ma chi l’ha proferita per primo? E soprattutto, è davvero questa l’opinione comune? Se il linguaggio è lo specchio dell’anima, il giudizio dell’etimologia è palmare: in latino, ‘lavoro’ si diceva opus (opera), mentre labor era più propriamente la fatica, la sofferenza, persino la disgrazia; ed è a lei, si capisce, che l’italiano ha scelto di affidare il senso di quell’attività che ‘nobilita l’uomo’. Ma i francesi si sono spinti anche oltre.
Nell’Alto Medioevo il tripalium (o trepalium) era uno strumento di supplizio, costituito appunto da tre pali, al quale si legavano i condannati. Dal nome derivò il verbo tripaliare (torturare sul tripalium), da cui il francese travailler, che per qualche secolo ebbe il significato di affliggere, tormentare, poi quello di soffrire (spesso riferito ai dolori del parto) e infine, a partire dal XVI secolo, quello di esercitare un’attività lavorativa. Ben presto il francese travail attraversò le Alpi e i Pirenei diffondendosi in altre lingue romanze, tra cui lo spagnolo (trabajo), il portoghese (trabalho), il sardo (traballu) e, naturalmente, l’italiano.
Nella nostra lingua, tuttavia, l’innesto dell’accezione lavorativa sulla pianta del travaglio non ha mai attecchito del tutto. Il travaglio in italiano è l’afflizione, il tormento sia spirituale sia fisico (il travaglio del parto, ma anche quello di stomaco). Travagliare quindi è ‘tormentare’, ‘molestare’, e travagliarsi vale ‘affliggersi’, ‘penare’. Orbene, la tribolazione capitale dei più, in ogni tempo – non a caso ‘tribolare’ deriva da tribulum, la trebbiatrice – è stata sempre il lavoro; non sorprende perciò che in italiano, come in francese, ‘travaglio’ sia passato ad indicare l’aspra, quotidiana pena del guadagnarsi da vivere. Ma il lavoro, tanto più in passato, difficilmente è scevro dalla fatica, quindi era fatale che il travaglio e il travagliare finissero per riferirsi a qualunque attività lavorativa: a partire almeno dal Settecento, vi sono chiari esempi di quest’uso generalizzato – che i puristi ottocenteschi, neanche a dirlo, censurarono, ammettendolo solo “se il lavoro sia faticoso e pericoloso”.
A volte, anche i sogni dei puristi si avverano: oggi, travaglio nel senso di ‘lavoro’ è decisamente obsoleto, oppure dialettale (travaggiu in Liguria, travagghiu in Sicilia, travai in Piemonte). Pure nell’accezione originaria di sofferenza, peraltro, è di uso poco comune, tranne che in relazione al parto o come aggettivo nel senso di ‘difficile’, ‘pieno di traversie’: un rapporto, una storia travagliata.
Cosa ci racconta il fatto che le strade semantiche del lavoro e del travaglio si siano biforcate? Che nel lavoro la fatica torpida e bovina, quella che scioglie i ginocchi – labor ha la stessa radice di labi, ‘scivolare’, da cui anche lapsus – è un pallido simulacro etimologico, mentre il travagghiu non si è mai levato di dosso la puzza di affanno e sudore. Cose che da tempo vogliamo esorcizzare, tanto più oggi, in tempi di cosiddetto smart working (ma nei campi, lontano dagli occhi e dal cuore, si perpetua l’atavica, muta pena di schiere di travagliatori senza nome).
Una curiosità, per chiudere in letizia: il francese travail è penetrato anche in inglese, ma senza parere e in modo decisamente bizzarro, diventando travel (viaggio). Rilevando il fatto nel suo dizionario etimologico francese (1863), Adolphe Mazur osservava perfidamente che il viaggiare era “uno dei grandi lavori della razza inglese”. A ognuno la sua pena, insomma.