Fondamento
fon-da-mén-to
Significato Parte sotterranea di una costruzione, che ne rende il peso; complesso dei principi alla base di una disciplina; motivo, ragione valida
Etimologia dal latino fundamentum, da fundàre ‘porre le fondamenta’, derivato di fundus ‘fondo’.
Parola pubblicata il 07 Novembre 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Chi mai potrebbe dubitare della fondamentale importanza del fondamento? Si sa: senza solide fondamenta non si può costruire nulla di duraturo, e ciò che è infondato – siano affermazioni, sospetti o speranze – è campato in aria. Non a caso, ‘fondamento’ deriva da fondo: terreno, base, appoggio sottostante alle cose come alle azioni e ai pensieri, che se destituiti di ogni fondamento sono illegittimi, insussistenti, falsi. E come potrebbe il fondamento non essere preminente in filosofia, quando da sempre essa punta a cogliere la vera essenza, il sostrato delle cose dietro le mutevoli apparenze? Non per nulla si parla di ‘edificio del sapere’: e non vorremo mica che proprio ‘la madre di ogni scienza’ sia costruita sulla sabbia?
Infatti i primi filosofi cercavano l'archè, la sostanza eterna, l’immutabile principio costitutivo di ogni cosa. E ben presto si fece strada l’idea che questo fondamento fosse afferrabile solo coll’intelletto, in virtù di un accesso privilegiato della ragione umana all’Essere, perché l'essenza della realtà e il pensiero che la coglie sono strutturalmente simili. In epoca moderna, però, la fiducia in questo magico accordo tra essere, pensiero e linguaggio iniziò a vacillare. Cartesio dovette fondare la certezza della conoscenza su due pilastri che sarebbero stati presto spazzati via dai marosi della modernità: la trasparenza dell’Io a sé stesso e la garanzia di Dio. Un secolo e mezzo dopo di lui, però, Kant, pur sbarazzandosi della vecchia metafisica, non rinunciò affatto a cercare un fondamento alla conoscenza: altrimenti – che diamine – i filosofi sarebbero dei perdigiorno che cianciano a vuoto, no?
Finché non è arrivato Nietzsche, che ha distrutto queste illusioni a colpi di martello filosofico, sentenziando che noi umani «non abbiamo (…) nessun organo per il conoscere, per la ‘verità’: noi ‘sappiamo’ (o crediamo, o c’immaginiamo) precisamente tanto quanto può essere vantaggioso sapere nell’interesse del gregge umano, della specie». Dopo di lui, certo, ci sono stati altri tentativi di restaurare l’antico idillio tra la ragione umana e l’essenza delle cose, ma nella postmodernità il suo punto di vista è divenuto senso comune. In particolare, a dichiarare morta e sepolta la «filosofia fondazionale» – quella che si concepisce come ‘sistematica’ e ‘oggettiva’, convinta che il suo vocabolario «disponga di un legame privilegiato con la realtà, che ne farebbe qualcosa di più che un semplice insieme di descrizioni» – è stato il filosofo statunitense Richard Rorty (1931-2007).
Secondo Rorty, «l'immagine che tiene prigioniera la filosofia tradizionale», è quella della mente come specchio che riflette più o meno fedelmente la ‘realtà oggettiva’ delle cose. Ma la mente umana non può scoprire alcuna ‘verità eterna’ e assoluta sul mondo; non abbiamo l’«occhio di Dio»: la nostra visione è sempre inevitabilmente prospettica, ogni verità relativa ad un determinato contesto linguistico, culturale e sociale ineludibile – a meno di coltivare l’illusione «di essere qualcosa di più che semplicemente umano». Ma la filosofia non deve assecondare questo vano desiderio di trovare fondamenti metafisici – Dio, la Ragione, la Natura ecc. – alle nostre idee, bensì dedicarsi, con atteggiamento laico, alla ricerca di soluzioni nuove e sempre più intelligenti ai problemi del consorzio umano. Una volta esclusa la Verità dal nostro orizzonte, non resta che il confronto tra le diverse interpretazioni per trovare un consenso, sempre contingente e temporaneo, su quale sia la migliore in ogni particolare contesto.
Il rubicondo Richard Rorty, in una foto di Heather Conley.
Per Rorty la filosofia fondazionale è «una malattia culturale che è stata guarita»: oggi la filosofia non è una disciplina che tratta di «problemi eterni», bensì «un genere culturale», che ha per scopo semplicemente «il mantenimento della conversazione». Non esiste, infatti, una giustificazione razionale dei nostri concetti e valori diversa dalla discussione libera, razionale e aperta, né alcun criterio ‘superiore’ o ‘oggettivo’ che trascenda questo piano. E quanto all’immancabile accusa di relativismo ‘nichilista’ che consegue a questa visione, Rorty la spazza via argomentando che anche riconoscendo le credenze come prodotto di circostanze storiche contingenti, non solo possiamo sempre scegliere di regolare su di esse le nostre azioni, ma persino considerarle degne cause per cui morire.
All’idea tradizionale di filosofia sistematica, Rorty contrappone quella di una filosofia «edificante», cioè formativa, ma in modo dialogante, senza voler ‘regnare’ sugli altri saperi in virtù del suo preteso fondamento metafisico. Certo, Rorty riconosce che l’idea stessa di ‘filosofia edificante’ è paradossale, giacché viene usualmente bollato come «anormale», e non autentico filosofo, chi rifiuta di presentarsi come scopritore di una qualche verità oggettiva. Ma da parte sua, il filosofo edificante pensa che alla filosofia sia sufficiente il compito di mantenere aperta la discussione; vuol essere una voce tra altre nella conversazione umana, un viandante fra tanti nel viaggio incerto e periglioso della civiltà. Del resto, a Venezia le fondamente non sono gli ordinari, statici sostegni sotterranei degli edifici, bensì le strade che costeggiano i canali su cui si affacciano. Anche le cose più ‘normali’, a volte, riservano sorprese.