Relativismo

Le parole e le cose

re-la-ti-vì-smo

Significato Ogni dottrina che affermi la relatività della conoscenza; carattere di ciò che non è assoluto, ma legato alla situazione in cui si manifesta

Etimologia da relativo, voce dotta recuperata dal latino tardo relativus, derivato di relatus, participio passato di refèrre ‘riferire’.

«Come diceva Einstein, tutto è relativo». Quante volte l'abbiamo sentita? Ora, a parte che la teoria della relatività non dice affatto una cosa del genere, è da frasi come questa che si percepisce quanto un’idea sia diventata senso comune, temperie condivisa, assioma popolare. Ma non è stato sempre così, anzi: in ogni tempo, gli esseri umani hanno semmai perseguito e valorizzato il contrario del relativo, l'assoluto. Come siamo arrivati fin qui? Chi l’ha inventato, il relativismo?

Fu intorno alla metà del V secolo a. C. che Protagora di Abdera, sofista (ossia 'maestro di virtù' itinerante), affermò che «l'uomo è misura di tutte le cose». Asserzione decisamente radicale, con cui la verità, da divina che era, si faceva umana: niente più ricerca della 'vera' realtà delle cose, occulta e tuttavia garantita dal perfetto accordo di essere, pensiero e linguaggio. Non esiste una realtà unica, immobile ed eterna in attesa di essere conosciuta, ma una molteplicità di conoscenze possibili, che si manifestano ad ognuno in modo differente, secondo la sua disposizione individuale.

Chiaramente, qui si tratta di relativismo gnoseologico, cioè conoscitivo, il quale nega che all'uomo sia dato di conoscere alcuna verità ‘assoluta’. Non stupisce che i maggiori pensatori successivi, da Platone in poi, abbiano ritenuto tale posizione inaccettabile e autoconfutante: se sostieni che tutto sia relativo, allora lo è anche questa tua affermazione; ciò che dice il primo ignorante che passa ha lo stesso valore di ciò che dici tu. Proprio nel Teeteto di Platone, tuttavia, Protagora chiarisce che per lui le opinioni non si equivalgono affatto: ognuno percepisce le cose a modo suo, ma il freddo provato dal febbricitante – per lui affatto reale – non può certo valere come criterio al pari delle percezioni, largamente maggioritarie, di chi non ha la febbre.

Il compito del sofista, quindi, è analogo a quello del medico: come questi muta lo stato del paziente dalla malattia alla salute, così l'educatore fa in modo che si «passi da un abito d'anima peggiore ad uno migliore», e – a livello politico – che «alle città le cose buone paiano giuste in luogo delle cattive», cercando, mediante libera discussione, di creare un ampio consenso su ciò che è più opportuno. Ecco il vero senso della famigerata espressione protagorea «rendere migliore il discorso peggiore»: non già far prevalere cinicamente, mediante artifici oratorî, tesi pretestuose su quelle ragionevoli, bensì sostituire una «difettosa disposizione d'animo», che «fa opinare cose ad essa conformi», ossia di bassa qualità, con una «retta disposizione», da cui conseguirà una visione del reale di livello superiore e quindi una tesi migliore.

È facile capire come il relativismo gnoseologico trapassi naturalmente in quello morale e culturale: ciò che è giusto, valido e utile per un individuo o una collettività in un certo luogo e tempo non lo è necessariamente sempre e ovunque. È questo tipo di relativismo ad essere diventato senso comune oggigiorno, provocando inevitabili controversie e contrapposizioni. Perché c'è modo e modo di intenderlo: c’è quello triviale – e oggi purtroppo assai diffuso – per cui in assenza di verità assolute ognuno può fare e dire ciò che gli pare, siano pure cose criminali e intolleranti (Embè? Sarò libero di esprimere la mia opinione?), o evidentemente insensate (Perché, per par condicio, non invitate un terrapiattista a dibattere con l’astronomo?); ma c’è anche un relativismo assai più serio, che s'imbatte in dilemmi non banali.

Quanto, nell'umanità, è assoluto (universale, atemporale) e quanto relativo (culturalmente e storicamente determinato)? Una società aperta implica necessariamente il relativismo, o sono necessari almeno alcuni principî assoluti per salvaguardare la nostra libera convivenza? È vero, come sostengono taluni, che il relativismo porti dritto al nichilismo, alla negazione di ogni valore? Dobbiamo, in nome del relativismo e del rispetto per le differenze, accettare ogni elemento delle culture ‘altre’, anche quando ripugni al nostro senso morale? E se l'alterità preclude un terreno comune, come saranno possibili l'intesa e la convivenza?

Protagora non ha, ovviamente, le risposte a tutte queste domande; e tuttavia, duemilacinquecento anni dopo, ha ancora molto da insegnarci.

Parola pubblicata il 23 Novembre 2021

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.