Postmoderno
Le parole e le cose
post-mo-dèr-no
Significato In filosofia, di atteggiamento culturale che considera superate le certezze ideali, filosofiche, scientifiche della modernità e abbraccia incredulità, frammentazione, ironia
Etimologia composto di post- e moderno, calco sulla voce inglese post-modern.
- «È un tipo di disillusione spavalda e postmoderna.»
Parola pubblicata il 26 Settembre 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Tagliare la pagnotta della Storia a fette più o meno grosse è tanto utile quanto, inevitabilmente, opinabile. Secondo la partizione più comune, l’Età moderna inizia nel 1492, col serendipico viaggio di Cristoforo Colombo in America, e quella contemporanea con la Rivoluzione francese, nel 1789, quando Napoleone era un giovanotto di belle speranze. Sicché, la regina Vittoria sarebbe nostra contemporanea, mentre il pirata Barbanera e il Re Sole erano uomini moderni. Davvero straniante, specie per il significato che diamo correntemente alla parola ‘moderno’ – attuale, nuovo –, conforme al suo etimo: dall’avverbio latino modo ‘adesso, or ora’. E il post-moderno, quindi, cosa sarebbe? Qualcosa di ancora più nuovo del moderno?
No, stavolta quel ‘post’ è molto più che un semplice ‘dopo’: racconta una cesura percepita rispetto al moderno, che in quest’accezione non nasce nel 1492 ma grossomodo con la Seconda rivoluzione industriale e la società di massa, a fine Ottocento: epoca di grandi cambiamenti e progresso, ma anche principio del famoso «logorio della vita moderna». E il postmoderno, invece, quando sarebbe iniziato? Ovviamente una datazione precisa è impossibile, ma il concetto divenne centrale nel dibattito culturale tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, e consacrato in filosofia da un’opera di Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna (1979).
Jean-François Lyotard, in uno scatto di Bracha L. Ettinger, sta per dirtela grossa.
In quanto clima intellettuale, autointerpretazione di un’epoca che riflette un cambiamento di percezione, uno scarto rispetto al passato, il postmoderno si impernia su una determinata interpretazione del moderno: come epoca di razionalità forte, grandi narrazioni unitarie e fondamenta stabili, con una visione lineare e progressiva della storia per cui ogni presente è superiore al passato, e il nuovo invariabilmente migliore del vecchio.
A queste idee, si contrappone il rifiuto di ogni visione unitaria o prospettiva totalizzante, la delegittimazione di autorità, canoni e convenzioni dominanti e – a livello di tecnica artistica – frammentazione, sovrapposizione di piani temporali, mescolanza di temi e stili, virtuosismo, accostamenti paradossali. Ma soprattutto, in opposizione ai forti ideali e alla funzionalità tipicamente moderni, il postmoderno si caratterizza per la giocosità e per un atteggiamento di ironia, scetticismo, leggerezza nel rapporto col passato, oggetto di perenni revival e disinvolti riadattamenti. Umberto Eco ha sintetizzato la condizione postmoderna come quella «di chi ami una donna molto colta, e che sappia che non può dirle ‘ti amo disperatamente’, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: ‘Come direbbe Liala, ti amo disperatamente’». Così è la comunicazione in «un'epoca di innocenza perduta».
Tale perdita d’innocenza resta cifra essenziale del postmoderno anche a livello strettamente filosofico. Secondo Lyotard, postmoderna è «l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni», ossia quelle grandi narrazioni – l’illuminismo, l’idealismo – che pretendono di legittimare una certa visione del sapere (quale emancipazione progressiva, o trionfo di una razionalità totalizzante). Tale pretesa è vista ormai come un’impostura, un’istanza autoritaria a cui bisogna ribellarsi cambiando le regole del gioco, che non devono essere assolute, stabilite una volta per tutte: il consenso «deve essere locale, ottenuto cioè dagli interlocutori momento per momento e soggetto a eventuale reversione», corrispondentemente a quanto accade nella società, dove «il contratto limitato nel tempo si sostituisce di fatto all'istituzione permanente nel campo professionale, affettivo, sessuale».
Il postmoderno è un contesto in cui non ci sono più «i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini»; è il pensiero di un’umanità che rinuncia ai miti rassicuranti del passato per vivere spavaldamente in un mondo senza fondamenti né certezze, dove – dato il «comportamento terroristico» dell’«istituzione scientifica» volto ad escludere ogni alternativa al paradigma dominante – il consenso «è divenuto un valore desueto, e sospetto». Perciò, giacché «i secoli XIX e XX ci hanno saziato di terrore» e «abbiamo pagato abbastanza cara la nostalgia del Tutto e dell'Uno», bisogna dichiarare «guerra al Tutto» e «attivare i dissensi» mediante la «paralogia», cioè la libera invenzione, la mossa paradossale che capovolge le regole stabilite.
Noi, il postmoderno, più che conoscerlo lo respiriamo: è l’atmosfera del nostro mondo complesso, plurale e digitale, caratterizzato da assenza di centralismo, proliferazione dei significati, moltiplicazione delle prospettive, provvisorietà delle identità. Sperimentiamo dappertutto la frammentazione e la scissione; persino nell’ascolto della musica, un tempo basato sull’album come totalità conchiusa e significante, oggi sulla fruizione estemporanea di brani singoli dalle piattaforme digitali. Eppure, forse viviamo ormai nel post-postmoderno, perché la visione generale di Lyotard ci appare decisamente datata, più ideologica che postmoderna, con la sua «guerra al Tutto» e il «sospetto» nei confronti del consenso.
In un mondo sempre più disgregato, egocentrico e conflittuale, ci sembra semmai urgente trovarlo, un consenso – anche in modo non innocente, postmodernissimo, purché sia: alla fin fine, ancorché obliquo, il messaggio dell’innamorato postmoderno di Eco era e restava, semplicemente, «ti amo».