Molesto

mo-lè-sto

Significato Originariamente, opprimente, gravoso; oggi, fastidioso, importuno, spiacevole

Etimologia voce dotta recuperata dal latino molestus, derivato da moles, ‘peso’.

Il testimonial perfetto di questa parola, per me, è un moscone. Uno di quelli grossi e rumorosi, che una volta entrati in una stanza persistono a girare in tondo con l’unico e palese scopo di irritarmi.

Provate invece a chiedere a Dante quale sia per lui la perfetta esemplificazione di “molesto”. Otterrete una risposta del tipo: “Per me è quando uno, in una folla di anime mutilate e sanguinanti, cammina tenendo la propria testa mozzata per i capelli.” Ora, a furia di vedere tormenti infernali, è normale che uno si desensibilizzi; ma sembra comunque un po’ riduttivo definire questa situazione “molesta” (Inf. XXVIII).

A difesa di Dante, però, va detto che le parole nel tempo si usurano: ‘molesto’ era un aggettivo nuovo fiammante quando il nostro poeta l’ha acquistato al supermercato della lingua latina; ma, passando di mano in mano, ha finito per stingersi.

Oggi è un semplice sinonimo di ‘fastidioso’, noto soprattutto per una delle opere di misericordia predicate dal catechismo: “Sopportare pazientemente le persone moleste” (esortazione spesso ripetuta da mio padre con l’aggiunta della saggia postilla: “Fino a un certo punto”). In latino, invece, molestus descriveva qualcosa di opprimente, pesante sull’animo come un macigno.

In questa luce assume quindi tutto un altro aspetto la frase con cui Farinata accoglie Dante nel X canto dell’Inferno: “La tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patria natio / a la qual forse fui troppo molesto.” In altri termini Farinata, sentendo l’accento di Dante, riconosce in lui un proprio concittadino, e nel ricordare Firenze esprime subito il sospetto di essere stato per la città “troppo molesto”: non semplicemente scomodo, ma appunto dannoso, nocivo.

Questa frase adombra un evento solo più tardi esplicitato: la battaglia di Montaperti, uno degli scontri più sanguinosi tra guelfi e ghibellini. All’epoca Firenze era comandata dal partito guelfo, che aveva esiliato dalla città i ghibellini più influenti – tra cui appunto Farinata. Questi si rifugiarono quindi a Siena, storica rivale di Firenze, e combatterono poi al suo fianco contro la propria città natale.

La battaglia ebbe conseguenze devastanti per Firenze, che perse – secondo alcune fonti – ben 10.000 uomini e arrivò a un soffio dall’essere rasa al suolo. Non stupisce quindi che il ricordo continui a perseguitare Farinata anche da morto: era giusto combattere contro coloro che l’avevano esiliato, anche se ciò voleva dire schierarsi contro la propria città?

Il “forse” che accompagna le sue parole racchiude tutto il tormento di questo dubbio. E il fatto che il suo rimorso affiori già nelle prime parole, ben prima che l’argomento di Montaperti sia affrontato, lascia supporre che sia per lui un pensiero fisso. Del resto è difficile immaginare quale angoscia sia insita in un simile sospetto; nell’idea cioè di essere stato solo un peso e una disgrazia per la città che egli amava come nessun’altra.

Peraltro questo sospetto era famigliare anche a Dante. Infatti le parole di Farinata riecheggiano una citazione del profeta Michea (“Popule meus, quid feci tibi? aut quid molestus fui tibi?”) con la quale iniziava anche una perduta lettera scritta da Dante al popolo fiorentino, nei primi anni dell’esilio. Forse allora in quella frase risuona l’eco di tutte le volte in cui il poeta stesso, pensando alla sua città lontana, si è domandato col cuore pesante: “Potevo fare in un altro modo?”

Parola pubblicata il 07 Giugno 2021

Parole d'autore - con Lucia Masetti

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