Narrare

nar-rà-re (io nàr-ro)

Significato Raccontare in maniera formale

Etimologia dal latino narrare, derivato di gnarus ‘che sa’.

Parole così centrali e comuni sono particolarmente significative, ma è facile trascurarne la speciale sfumatura.
Non che il narrare non attiri l’attenzione, anzi. In certi ambienti suscita un interesse quasi totemico o maniacale — si ha l’impressione che tutto e ogni persona possa o debba essere soggetto di una narrazione, tanto che il verbo ‘narrare’ può venire in uggia. La realtà però è complessa, perché il narrare sa anche avere dei profili tanto di moda quanto desueti, e sostanzialmente ha la caratura di un comportamento specie-specifico, cioè strettamente relativo alla nostra specifica specie umana.

Inoltre c’è un’altra questione immediata che volge il normale in motivo di perplessità, una questione linguistica che riguarda la sua forma: per essere così centrale, sembra una parola un po’ isolata. Basta ascoltarla: ad avere questa bella ed energica radice narr- c’è solo lei, con il nucleo dei suoi derivati stretti. Ma non è come pare. Tastato il nodo, iniziamo a sbrogliare.

Il latino ‘narrare’ è figlio di un termine che non arriva in italiano — ma vi arriva il suo contrario, cioè ‘ignaro’. L’ignarus non sa, non è avvisato. Lo gnarus sì, ed è lui che stavamo cercando: siamo davanti a uno degli innumerevoli esiti della radice indoeuropea ricostruita come gno-, col significato di ‘conoscere’.

Tornando al narrare, abbiamo tante, tantissime parole per indicare questa cosa qui, questa trasmissione. Però tante delle più comuni tengono strettamente a fuoco l’atto in sé di questo modo di ‘riferire’. Con qualche esempio diventa lampante.

Prendiamo il basilare raccontare, che scaturisce da un’idea di enumerazione (quel ‘contare’ dentro ci torreggia); prendiamo il descrivere, che è tremendamente pratico e didascalico nell’azione che descrive; pensiamo al moto estroverso dell’esporre, un metter fuori senz’altra direzione, ma pensiamo anche al ‘portare’ che è proprio del riferire e del relazionare (derivati variamente dal latino fero, ‘portare’). Se poi consideriamo il recitare, arriviamo al punto in cui l’atto è una performance. Il narrare, pur in mezzo a questa folla, è su un altro piano.

Il suo etimo non si affretta a dirci che cos’è, ma si sofferma a dirci che cosa fa. Il narrare ‘mette a conoscenza’ (diremmo che ‘ci rende gnari’, se la parola esistesse). Non sottolinea l’azione dell’esporre dei fatti, ma l’effetto dell’ingenerare una cognizione.

È curioso notare come sia un verbo abbastanza alto, perfino sospinto verso il rétro e la desuetudine, senza però perdere un bottone di spendibilità e accessibilità.
Se ci incontriamo e so che ieri sera ti è successo qualcosa ma non so che cosa, quando ti esorto «Narrami!» si sente bene un’affettazione aulica e probabilmente ironica, che scherza sul rilievo che do a questi fatti ignoti. Se dico che un libro narra un viaggio, ecco che quest’azione si paluda, non è mica un diario spiccio, c’è un respiro odeporico elevato — siamo già nella letteratura. Se il nonno narra una storia, ecco che non è una storia qualunque pescata fra tante altre fungibili e detta in un interstizio della giornata, è una storia speciale, che (ci figuriamo benissimo) richiede una situazione dedicata, con una sua formalità, per quanto famigliare e intima.
Ma proviamo a muovere ancora qualche passo di sfumatura, anche se la salita da qui in poi è verticale e ci mancherà un po’ la terra sotto ai piedi.

Il narrare non dà una conoscenza asciutta e operativa, meramente informativa ed esplicativa, tutta compresa nell’esposizione. Per mettere a parte di qualcosa la narrazione sintetizza un’esperienza significativa trascegliendo alcuni fili della trama del mondo. Non rovescia una carriola di informazioni analitiche complete o rinfuse, ma coglie in maniera scelta e mette ordinatamente a disposizione uno sviluppo, una possibilità del reale — scarta o dimentica il resto. Il narrare ordisce e intreccia. Non scioglie, non spiega. Dà un’esperienza da interpretare.

Chiudendo, non è un intreccio qualsiasi. È con l’intreccio della narrazione che leghiamo i nostri ricordi, le nostre idee, i nostri valori, i nostri progetti, le nostre intere società in una zattera d’identità. La scelta operata dalla narrazione è sociale, e si stringe nella relazione fra chi narra e chi segue. Molto più di un conto, di un detto, di uno scritto, di un referto, quella della narrazione è una situazione partecipata. È una partecipazione strana, però, che resta tale anche quando la narrazione non va da bocca a orecchio ma è scritta, e scritta a distanze enormi di spazio e tempo.

Una parte spontanea ed enigmatica della condivisione della conoscenza.

Parola pubblicata il 04 Giugno 2024