Rabbuffare

rab-buf-fà-re (io rab-bùf-fo)

Significato Sconvolgere, scompigliare; rimproverare; accapigliarsi

Etimologia derivato di buffo ‘soffio’, di origine onomatopeica.

Da un’immagine semplice quale è quella del buffo, del soffio di vento, nella nostra lingua è scaturita una bella ramificazione di significati.

Rabbuffare ha il primo significato di scompigliare, di sconvolgere: la tempesta rabbuffa le verande dei ristoranti, la zia scherzosamente ti rabbuffa i capelli, il ventilatore rabbuffa le carte sul tavolo. Secondo un progresso figurativo lineare noto e condiviso, il rabbuffare passa a significare anche il rimproverare (pensiamo alla brontolata che spettina): la mamma ci rabbuffa per aver seminato ancora calzini a giro, il ministro rabbuffa i segretari che hanno combinato un pasticcio salito alla ribalta nazionale, e il grande ritardo ci fa meritare un rabbuffo. Proseguendo sul filone figurato, come intransitivo pronominale, il rabbuffarsi descrive l’accapigliarsi: fuori dal bar ci sono due che si rabbuffano, al primo giorno di saldi il negozio è pieno di persone che si rabbuffano per l’acquisto ambito.

Anche se è poco comune, non è una parola aulica: ha una certa carica ridicola, specie nei suoi significati figurati, che dà un bel colore al discorso e aiuta a ridimensionare lo scompiglio.

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(Dante, Inferno VII, vv. 61-66)

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa

d’i ben che son commessi alla fortuna,

per che l’umana gente si rabbuffa;

ché tutto l’oro ch’è sotto la luna

e che già fu, di quest’anime stanche

non poterebbe farne posare una.

Ci troviamo nel quarto cerchio, dove avari e prodighi sono condannati a far rotolare dei grossi massi; ma evidentemente è l’avarizia il peccato che a Dante brucia di più.

Il suo ribrezzo traspare perfino nel suono aspro delle rime. “Rabbuffa” presenta ben due consonanti doppie, e l’occlusiva (b) stride con la fricativa (f), con un effetto quasi cacofonico. Tutto il canto poi si gioca sul confine tra parola e rumore: non a caso si apre con le parole incomprensibili di Pluto, un essere mostruoso.

Del resto, chi sono gli avari? persone che hanno rifiutato l’interazione umana per rinchiudersi in un mondo di oggetti (i beni “commessi”, ossia affidati alla fortuna).

Conseguentemente vedono negli altri solo dei rivali (homo homini lupus, per usare un paradigma moderno). Perciò l’avarizia è così pericolosa: il male, come diceva Hannah Arendt, è banale, ed il seme di grandi violenze può nascondersi nella passione più meschina. Dante, con la sua esperienza di uomo politico prima, e di esule poi, lo sapeva fin troppo bene.

Tuttavia la natura umana è costruita proprio sulla relazione: dunque gli avari hanno negato la propria umanità, riducendosi a bestie. Il dialogo (che è esso stesso dono) scompare; ed anche le parole di Dante sembrano ingolfarsi nei loro suoni.

Peraltro “rabbuffare” è un termine popolare, fuori posto in un’opera poetica; ma Dante lo sceglie proprio perché è ridicolo. Nella prospettiva dell’eternità, infatti, le lotte degli uomini sembrano poco più che una baruffa da osteria. Come se osservassimo dall’alto un formicaio, ci accorgiamo così che tutta la vita dei dannati è stata una “beffa”, perché consacrata ad uno scopo indegno di loro.

E adesso tutto l’oro del mondo non potrebbe comprare la pace neppure di un’anima sola; il che pone implicitamente la domanda: “A che giova all’uomo guadagnare il mondo, se poi perde se stesso?”

Parola pubblicata il 24 Ottobre 2016

Scorci letterari - con Lucia Masetti

Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.