Talento

ta-lèn-to

Significato Antica unità di misura del peso; antica moneta, in uso specie in Grecia e in Palestina; inclinazione, desiderio, volontà; predisposizione, ingegno, capacità, e persona che ne è dotata

Etimologia attraverso il latino talentum, dal greco tálanton ‘bilancia’, ma anche unità di peso e nome di moneta di grande valore.

Desiderio, inclinazione, dote naturale. Ma anche moneta antica. Nella parola ‘talento’ hanno finito per convergere molti significati, di cui continuiamo a frequentare solo una piccola parte — specialmente quelli che lo inquadrano come dote d’ingegno o capacità, o persona con questa dote: l’agente è in cerca di un grande talento, è una persona dai molti talenti, con questa esibizione posso provare il mio talento. Il bello è che tutti questi significati sono tenuti insieme da un unico disegno d’etimologia, da una storia senza soluzioni di continuità. Comincia tutto millenni fa, con una bilancia.

Il greco tálanton unisce tre concetti che per noi non sono più contigui, ma lo sono stati: bilancia, peso e moneta. La bilancia individuava il peso che dapprima era la moneta — ad avere valore era una certa quantità di un certo metallo. Peraltro questa parola ha un’origine antica, indoeuropea, da una radice che si può ricostruire come tele- o telə-, col significato di ‘portare, sopportare’ (da qui anche il togliere e il tollerare). Con l’evoluzione della monetazione le cose cambiano, eppure il riferimento resta — ma insomma, vorremo sapere a questo punto, di che moneta stiamo parlando?

Nonostante le variazioni attraverso i secoli, il talento era una moneta tendenzialmente di alto valore: di solito si cita che il talento ateniese corrispondesse a 26 chili di peso, e come moneta a 26 chili d’argento (siamo serenamente sopra i 20.000 euro di oggi). Facile capire che vivesse il prestigio della grande valuta; ma il nome del talento sarebbe rimasto un nome specialistico o quasi, come quello di altre monete greche come mine, dracme e oboli. Se non che... basta un singolo uso sufficientemente eccellente per cambiare per sempre le sorti di un nome — e nel caso del talento, è l’uso in una storia, anzi in una parabola.

Parliamo della famosa parabola dei talenti raccontata nel Vangelo di Matteo, e per capire il caso giova sapere che c’è una parabola analoga nel Vangelo di Luca, la parabola delle mine. Questa però è molto meno famosa, forse perché meno accattivante: da un lato la mina è un sessantesimo del talento (trecento euro e rotti, diciamo), e poi in questa versione il padrone dà a tutti i servi la stessa identica mina.

Nella versione di Matteo che ora sunteggiamo, invece, un signore in partenza raduna tre servi e dà loro, secondo le loro capacità, rispettivamente cinque talenti, due talenti e un talento. Durante la sua assenza il primo e il secondo servo investono e raddoppiano i talenti che hanno. L’ultimo, invece, timoroso, seppellisce il talento che ha ricevuto. Al ritorno del signore, i primi due, con suo compiacimento, gli rendono i talenti raddoppiati; il terzo, affranto, non può che restituire lo stesso talento che gli era stato dato — e il signore incollerisce terribilmente.

Il carisma di questa parabola, che è splendida e tremenda, sta nell’asimmetria di un’equità insondabile e nel peso dell’allegorica scommessa finanziaria — oltre che nella severità delle conclusioni («Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.»)
Ora, la diversa distribuzione e il diverso impiego dei talenti-monete adombra diverse predisposizioni e inclinazioni personali — che sono anche volontà personali. Questa lettura metaforica è stata molto intensa. Difatti il talento, quando compare in italiano, spesso è proprio una volontà, un desiderio. Ad esempio Dante, nel suo squisito sonetto Guido, i’ vorrei (che rivolge a due suoi amici, Guido e Lapo) fra l’altro dice che desidererebbe che «vivendo sempre in un talento, / di stare insieme crescesse ’l disio» cioè che vivendo sempre nella medesima volontà crescesse il desiderio di stare insieme. Ma ai tempi potevo parlare di come avessi talento di fare un viaggio, o di come fossi nelle condizioni di venire o mancare a mio talento.

Pare che sia stata la letteratura francese medievale (specie provenzale) a irradiare questi significati — anche se non manca chi ricostruisce uno sviluppo diverso del talento, che giunge alla volontà e all’inclinazione attraverso la ricchezza, nell’ambito del latino tardo e medievale, o addirittura direttamente dal greco quale inclinazione… della bilancia. Ma dobbiamo fare un ultimo passaggio, che è più evidentemente di matrice religiosa — e arriva al talento che ci è più familiare.

Il talento, nella parabola, è un dono da far fruttare. L’analogia con la dote naturale è evidente. Ed è nel Rinascimento, un momento di grandi contrapposti fervori religiosi, che il talento prende diffusamente questo profilo, che oggi è il più importante.

In questa veste non è discreto come l’attitudine, o vago come l’inclinazione stessa; non è instabile come una propensione; ha una finezza superiore all’abbozzo spiccio della bravura, è più situato e circostanziato rispetto all’ingegno e alla capacità; d’altro canto non ha nemmeno l’eccezionalità sovrumana del genio. Riesce ad avere una forma complessa, e proprio per questo ha una fragilità, e una necessità di essere sostenuto e coltivato, che nei sinonimi si riconosce in maniera meno immediata. È importante, ma non è definitivo, né è garanzia di successo. In questo articolato equilibrio il talento riesce meravigliosamente ad essere la moneta grossa dell’abilità umana — che sa di dote e di dono, che odora di prestito.

Parola pubblicata il 07 Settembre 2024