Crepuscolo

cre-pù-sco-lo

Significato Luce tenue e diffusa prima del sorgere del sole o dopo il tramonto; annebbiamento, confusione; accenno, barlume; termine, tramonto, declino

Etimologia voce dotta recuperata dal latino crepùsculum ‘crepuscolo, penombra’, derivato di creper ‘oscuro’.

Oggi al crepuscolo, figuratamente, colleghiamo solo il declino, il tramonto, il termine. E questa restrizione è frutto di un’occorrenza particolare — avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento e che ha inciso tanto su questa parola quanto sul mondo intero della musica e del teatro: il successo del non sempre simpatico Richard Wagner.

Se leggendo Leopardi ci imbattiamo in un crepuscolo di allegrezza, ciò che intende è un barlume, un accenno. Se leggendo Nievo troviamo fantasmi che vagolano nel crepuscolo del delirio, ciò che intende è un annebbiamento, una confusione. Il che è naturale: il crepuscolo che vediamo ogni mattina (sempre più tardi) e ogni sera (sempre prima) è quello stato celeste in cui la luce solare si diffonde negli strati più alti dell’atmosfera prima del’alba e dopo il tramonto, quando il sole non è a cora o non è più visibile. Sono momenti di penombra, il cui nome latino è derivato da una voce enigmatica, creper, che non ha dato altri frutti, anche se qualcuno nota la parentela con il greco knéphas, che ha il medesimo tenebroso significato (che peraltro giunge a sua volta al crepuscolo). Ma dopotutto, se un termine antico che significa l’oscurità avesse una storia limpida come una mattina di aprile qualcosa stonerebbe, il fatto che essa stessa sia crepuscolare è il minimo. E insomma, con questa ricca, variegata veste il crepuscolo ha attraversato la storia della nostra letteratura. Finché…

È del 1883 la traduzione in italiano della Götterdämmerung, quarto e ultimo capitolo della superba tetralogia de L’anello del Nibelungo, andata in scena nel 1876. La sua traduzione dal tedesco fu ‘Il crepuscolo degli dèi’, una traduzione precisa; ciò nonostante quest’opera non narra di un crepuscolo generico: Odino darà alle fiamme il Valhalla per segnalare l’inizio del Ragnarök, la fine del mondo, ed è proprio con i bagliori rossi provenienti dal Valhalla che si conclude. (Ci sarebbe un piccolo problema etimologico che investirebbe la correttezza stessa del termine Götterdämmerung, che sarebbe un calco del termine Ragnarøkkr ‘crepuscolo degli dèi’ e non del più diffuso Ragnarök, propriamente ‘il fato degli dèi’, ma questa è un’altra storia e dovrà essere raccontata un’altra volta).

Fatto sta che oltre al buio in sala a teatro durante lo spettacolo, oltre alla buca per l’orchestra, oltre ai temi musicali per situazioni e personaggi, Richard Wagner è stato determinante anche per la vita della nostra parola ‘crepuscolo’, che oggi non può quasi più essere in senso figurato l’accenno, come una promessa d’aurora, non può più essere la confusione, come in un’oscurità parziale e perciò ancor più ingannevole. Può solo essere il declino finale: il crepuscolo di una tradizione, il crepuscolo della vita, il crepuscolo di un’amicizia — quasi si scorgessero nel cielo non i bagliori del sole estremo, ma del Valhalla in fiamme che annuncia la fine degli dèi e del mondo.

(Com’è strano rendersi conto che Leopardi usa una parola in maniera più gioiosa di quanto facciamo noi!)

Parola pubblicata il 25 Luglio 2019