Eldorado

el-do-rà-do

Significato Leggendaria e ricchissima città dell’America del sud; luogo finale e nascosto di delizia, ricchezza e libertà

Etimologia dallo spagnolo el dorado ‘il dorato’, probabilmente in originale riferimento a el hombre dorado, “l’uomo dorato”.

Il Paese della Cuccagna e quello di Bengodi non sono mai stati creduti luoghi reali. Nessuno ha mai narrato di esserci stato (non seriamente, almeno), e non si ha notizia di mappe che ne segnassero la posizione, né tanto meno di spedizioni che li abbiano cercati. Per l’Eldorado non è così — e questo tratto storico è determinante per il modo in cui lo usiamo, normalizzato in sostantivo. Dobbiamo capire che cosa ci fa immaginare.

Quella sul mitico paese di Eldorado è una narrazione tessuta con dicerie variegate che si sono sovrapposte, ricorrette e riattizzate per secoli — il che non aiuta l’unità e la coerenza del racconto. Possiamo collocarlo nello spazio: siamo nell’America del sud, grossomodo fra la cordigliera colombiana a ovest, il bacino dell’Orinoco a nord, il Rio delle Amazzoni a sud, la Guyana a est. A partire dagli anni ‘30 del Cinquecento, mentre l’infame spedizione di Francisco Pizzarro distruggeva l’Impero Inca, le voci sulle ricchezze celate nel folto della giungla si facevano sempre più irresistibili.

Esplorazioni condotte nei decenni da gruppi più o meno sbandati e pronti a incrudelire sui nativi migliorarono le conoscenze geografiche del luogo, ma di favolose città d’oro nemmeno l’ombra.

In quegli stessi anni, esplorazioni sulle Ande colombiane portavano alla conoscenza dei Muisca, un popolo degli altipiani che aveva una curiosa usanza: l’iniziazione del cacicco prevedeva che venisse coperto di polvere d’oro e che si immergesse nelle acque del lago Guatavita mentre venivano officiati i riti. Il conquistador Gonzalo Jiménez de Quesada ne parlò come el hombre dorado. Ed è così che la dicitura el dorado inizia a prendere piede nei favoleggiamenti degli esploratori, che narravano di uomini d’oro, di città d’oro, di imperi d’oro.

Già perché negli anni ‘70 del Cinquecento Juan Martinez la sparò più grossa di tutti: affermò di essere stato rapito dalla spedizione di cui faceva parte e di essere stato portato a Manoa, la città dell’Eldorado, che aveva dimensioni immense. Servivano due giorni di viaggio solo per arrivare dalle porte esterne al palazzo del sovrano. Sfortunatamente, rilasciato, non sapeva come tornarci, vedi la sfortuna. Le ricerche continuarono.

Lasciando perdere gli ulteriori sviluppi in loco, che nel Seicento trasformarono via via la brama dell’eldorado in uno sfruttamento molto più coi piedi per terra ed efficiente, in Europa questo nome prese a girare; ed ebbe una fortuna speciale a partire da quando nel 1759 l’intellettuale più famoso d’Europa ne parlò nel suo libro più famoso: Voltaire, nel suo Candido, fa passare il protagonista da Eldorado, dove trova e si porta via dei montoni d’oro.

L’eldorado per noi non è solo l’ennesimo luogo fantastico di abbondanza e piacere. È un luogo finale e riposto, forte di un esotismo e di una ricchezza che sappiamo immaginare molto bene, densa di delizie, assolutamente libera, e da cui ci facciamo attrarre molto più che dagli austeri regni himalayani di Shambhala e Shangri-La. Inoltre è stato creduto vero, e mantiene una dimensione reale: nella sua ricerca è stata spesa un’ecatombe di sangue, e trasmette con forza una misura di desiderio che è insieme vagheggiato e — pare — a portata di mano.

Così troviamo un eldorado nel largo castello che troneggia fra i vigneti, guardando la tavolata gioiosa sorridiamo come chi realizza di essere nel suo eldorado, e c’è quella biblioteca meravigliosa che è un vero eldorado.

Parola pubblicata il 01 Giugno 2020