Epifora
Le figure retoriche sono una bomba
e-pì-fo-ra
Significato Figura retorica che consiste nella ripetizione di una o più parole alla fine di un segmento di testo
Etimologia dal greco epiphorà ‘aggiunta’, a sua volta dal verbo epiphèro ‘portare in aggiunta’.
Parola pubblicata il 12 Agosto 2017
Le figure retoriche sono una bomba - con Mauro Aresu
Le figure retoriche pervadono la lingua e il pensiero, ad ogni livello. Con Mauro Aresu, giovane studente di lettere classiche, iniziamo un ciclo di parole rigoroso e scanzonato proprio sulle figure retoriche.
Se la scorsa settimana abbiamo parlato dell’anafora, ovverosia la ripetizione di parole all’inizio di segmenti di testo, oggi invece trattiamo della sorella epifora, che si comporta allo stesso modo ma specularmente. Ancor di più della prima, questa figura retorica la fa da padrona nell’ambito dei rituali solenni: ricordate quando, al Catechismo, vi hanno insegnato tutte le formule di risposta e chiusura alle preghiere del prete? Ebbene, voi che ripetevate, insieme con gli altri, Amen, Ora pro nobis e via dicendo, stavate mettendo in atto un’epifora.
Ovviamente la struttura ripetitiva generata dall’epifora la rende strumento prediletto di oratori antichi e moderni in ogni ambito: si ricordi – e questo è molto importante, perché alla base delle scelte retoriche di grandi personaggi del passato e del presente – che la ripetizione stimola l’impressione nella mente, rendendo molto più semplice il lavoro della memoria. A questo proposito è opportuno nominare, per quanto argomento slegato dall’epifora, le formule omeriche: a prescindere dalle varie teorie riguardanti la genesi dei grandi poemi greci, è indubbio che la ripetizione di segmenti di testo sempre uguali sia stata essenziale per la memorizzazione dei poemi stessi prima della loro trascrizione ufficiale.
Il primo esempio di oggi è tratto da Alda Merini, la celebre autrice milanese vissuta a cavallo tra i secoli XX e XXI, più nello specifico da L’altra verità. Diario di una diversa, sua prima opera in prosa. “Noi venivamo saziati di colpa, quotidianamente; i nostri istinti erano colpa; le visioni erano colpa; i nostri desideri, i nostri sensi erano colpevolizzati.” Il senso della colpa, con la sua ripetizione alla fine del segmento (che, è bene ricordarlo, insieme con l’inizio di esso è il punto in cui l’attenzione del lettore è più vivida) penetra negli occhi di chi accoglie queste parole e si impressiona nella mente. Quest’esempio è interessante non solo per la provenienza (chiunque dovrebbe, prima o poi, leggere qualcosa di scaturito dalla penna della grande Merini), ma anche per l’ultimo segmento: si noti come l’epifora, così come l’anafora e le altre figure retoriche della ripetizione, non necessiti di una ripetizione letterale, ma invece di una ripetizione semantica. È per questo che quel colpevolizzati alla fine della frase è sempre parte dell’epifora della colpa.
E se si è citata la Merini Euridice – così lei stessa s’era definita – pare giusto continuare menzionando il suo Orfeo, Giorgio Manganelli, autore coevo e suo concittadino che condivise con lei una breve ma intensa relazione dopo averla scoperta come scrittrice. “Assenza di senso: distruzione del senso, perdita del senso, constatazione che in nessun momento vi è stata traccia, indizio, sintomo di senso.” queste son le sue parole in Rumori o voci, gioiello privo di ristampe dal 1987, ma comunque punto di partenza per coloro che decidono di addentrarsi nel mondo dedaleo della densa prosa manganelliana e del suo altrettanto denso pensiero critico.
Infine, per chiudere in bellezza questo brevissimo percorso, iniziato con una grandissima scrittrice e proseguito con un altrettanto grande autore, un ultimo esempio di epifora ci viene suggerito dall’immenso D’Annunzio ne La pioggia nel pineto, lirica facente parte dell’Alcyone, raccolta di poesie: “Più sordo, e più fioco / s’allenta, si spegne. / Solo una nota / ancor trema, si spegne, / risorge, trema, si spegne.”