Flutto
Scorci letterari
flùt-to
Significato Onda del mare; mare; moto dell’onda vicino alla costa
Etimologia voce dotta recuperata dal latino fluctus, derivato di flùere ‘scorrere’.
Parola pubblicata il 14 Maggio 2018
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Il flutto va capito. Si riferisce etimologicamente a uno scorrere, e in effetti in latino fluctus significava la corrente, l’ondata, il moto sconvolto, come anche l’effluvio, la vampata, lo zampillo, e perfino la chioma ondulata. Ma tutti questi bei significati si sono spenti nel flutto, che recuperato dal latino intorno al millequattrocento si attesta essenzialmente sull’onda del mare; peraltro va notato che invece l’allotropo popolare fiotto (attestato nel Duecento e risultato usurato di un uso continuo) ha mantenuto una maggiore versatilità di significato. Il problema alle onde del mare riconduciamo diversi modi di scorrere.
Sotto costa il flutto è un movimento d’acqua visibile, un’onda che si infrange e che sposta materia, flutto diretto se diretto alla spiaggia, flutto inverso se riflesso indietro, flutto di fondo che muove i grani del fondale, flutto neutralizzato da eleganti tetrapodi in cemento frangiflutti. Un gran vai e vieni. Ma si sente parlare della nave che, ormai perduta, s’inabissa fra i flutti, del cetaceo che emerge dai flutti, delle boe ben visibili fra i flutti: in questi casi, più che significare qualcosa che scorre, più che un vai e vieni, il flutto ci si mostra come una mera perturbazione dell’acqua (cosa che in effetti è l’onda, spostamento di energia, non di materia). Tant’è che i flutti in poesia diventano volentieri, per sineddoche, il mare stesso - di cui in effetti la perpetua perturbazione è un tratto distintivo.
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G. Marino, Donna che si pettina, vv. 1-8
Onde dorate, e l’onde eran capelli,
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori preziosi e quelli;
E mentre i flutti tremolanti e belli
con drittissimo solco dividea,
l’or de le rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.
Con Marino entriamo, trionfalmente, nel Barocco. Epoca maestosa fino alla pomposità, ricca fino al kitsch, eppure al fondo insicura e tormentatissima. Proprio per questo la sua poesia è al tempo stesso artificiosa e leggera, volta al puro diletto.
questo sonetto, ad esempio, descrive semplicemente una donna che si pettina, ma lo fa attraverso un’unica, elaborata metafora. I capelli sono “onde dorate”, attraversate da una nave d’avorio (il pettine), che è condotta qua e là da una mano non meno eburnea. E mentre il pettine divide la chioma con una riga drittissima, Amore raccoglie i capelli spezzati per farne catene, con cui legare le persone a lui ribelli.
Insomma non è certo una poesia profonda, eppure mi è sempre piaciuta molto. Un motivo è certamente la musicalità dolcissima, che ti conduce per mano da un verso all’altro. Basta far scivolare le parole sulla lingua, e si sente proprio il gusto della parola bella.
E poi c’è quella luminosità vellutata, nella quale realtà e metafora si confondono. Il lucido biancore del pettine affonda nel biondo caldo dei capelli, che fluiscono lenti come colate d’oro. E l’oro è in effetti protagonista, diffondendo la sua presenza anche da un punto di vista fonico (avorio, errori, Amor…) mentre l’allitterazione della L (flutti tremolanti e belli) sembra fluidificare ancor più la chioma, trasformandola quasi in luce liquida.
Ecco, qui si vede il modo straordinario in cui la poesia può trasfigurare la realtà: un piccolo istante, che nella corrente del tempo sarebbe del tutto insignificante, rivela una preziosità infinita, un’insospettata perfezione.
“Il fine del poeta è la meraviglia”, sentenziava Marino. E la meraviglia è qualcosa di più dello stupore: dà un senso di freschezza, di gioia, come il dolce canto di una donna che si leva nell’intimo delle sue stanze. È il calore di una luminosità nascosta nel cuore dei dettagli.