Gabella
ga-bèl-la
Significato In passato indicava un dazio, un tributo, più in generale una tassa di vario tipo, molto spesso sui generi alimentari, soprattutto in Italia e in Francia, o l’ufficio presso cui si pagava. Oggi si usa questa parola come sinonimo di ‘tassa’, ma non ha una valenza giuridico-tributaria di rilievo
Etimologia dall’araboqabālat, che significa ‘garanzia’, ‘malleveria’, derivato dal verbo qabila, cioè ‘accettare’ ma anche ‘ricevere’, ‘accogliere’. Attraverso il latino medievale gabella.
Parola pubblicata il 27 Novembre 2020
Parole semitiche - con Maria Costanza Boldrini
Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.
Ne ‘I promessi paperi’, parodia disneyana ad opera di Edoardo Segantini e Giulio Chierchini del romanzo di Alessandro Manzoni, i Gabellotti d’Assalto, un corpo speciale di agenti del fisco il cui scopo è quello di occuparsi degli evasori più accaniti, pervengono a metter le mani sul riccastro Don Paperigo, signorotto avaro e avido, il quale sarà condannato alla berlina e dovrà sposare Gertruda, la scocciatrice di Monza.
I Gabellotti d’Assalto devono il loro favoloso nome ad una tassa antica che è quasi diventata proverbiale, la gabella. Talmente proverbiale da costituire il nome di tante frazioni e località italiane, indicando così, senza troppo mistero, la contrada presso cui i viandanti dovevano pagar la gabella per entrare in città.
La parola, come molte legate a traffici e commerci, deriva dall’arabo, da qabālat, ovvero ‘garanzia’, a sua volta appartenente alla grandissima famiglia del verbo qabila il cui significato principale è ‘accettare’, ‘accogliere’, ma che può assumere diverse sfumature nelle varie forme verbali, come quando diventa qabbala e vuol dire baciare (curiosità che avevamo già citato trattando la parola cabala). Vero è che, nell’ambito di una società antica o medievale, l’accettar qualcuno, l’accoglierlo significa quasi automaticamente ammetterlo presso la propria gente, reputarlo idoneo e, soprattutto, farsene garante. Di qui allo sventolare tra le mani una ricevuta che attesti il pagamento della tassa di accesso alla città e che sia di garanzia per sé stessi il passo è breve.
Di gabelle ne sono esistite tante; antichissima, di origine romana, era quella sul sale. In Francia, dove la preziosa sostanza era monopolio di stato, fu una delle tasse più odiate dell’ancien régime, poiché era imposta in modo diseguale sul territorio della nazione, che si ritrovava sotto il giogo dei gabellieri, gli esattori, temuti, odiati, perché percepivano una percentuale sulle somme riscosse. E la gabella sul sale, va da sé, era bella salata.
Oggi nel diritto tributario italiano non si usa più la parola gabella. Per quanto nel nostro immaginario sia prossima al dazio, è possibile affermare che essa fosse l’antenata dell’odierna I.V.A., cioè l’imposta sul valore aggiunto, in quanto la tassa veniva generalmente esatta sui beni di consumo o sui servizi. Questa parola, tuttavia, compare tuttora nell’espressione formulare ‘fare il tonto per non pagar gabella’, ma è possibile dire che il nipotino blocca il passo ai nonni chiedendo loro di pagar gabella con un bacio e un cioccolatino, o che sono riuscita ad ottenere l’uso della sala prove per domani ma che ho pagato gabella promettendo di lasciarla all’altra compagnia teatrale per tutto il fine settimana.
La gabella è anche protagonista di uno degli sketch più divertenti del cinema italiano, in cui un solerte ed ottuso gabelliere esige per ben tre volte un fiorino da Massimo Troisi che deve recuperare il sacco con ‘ulivǝ, casciottǝ, pane…’.
Alzi la mano chi non ha, almeno una volta nella vita, citato questa scena del film Non ci resta che piangere per rispondere con ironia dopo esser stato mitragliato da una sfilza di domande!