Montagna

Dino Buzzati, le parole e i disegni

mon-tà-gna

Significato Grande rilievo della superficie terrestre; zona montuosa; grande quantità

Etimologia dall’ipotetica voce del latino parlato montanea, da montanus ‘montuoso’, derivato di mons ‘monte’.

C’è qualcosa di buffo, per certi versi umile e per altri pretenzioso, nel dare un nome alla montagna: dentro a questo termine si nasconde un’osservazione primaria, di una semplicità sorprendente e di un'ingenuità che ce la rende inaccessibile.

È un termine che si è formato nel misterioso atanor del latino parlato, che ha dato origine a una forma intermedia ricostruita come montanea a partire dall’aggettivo montanus, che deriva da mons, ‘monte’.
Bello come una qualità che nasce da un nome riesca a rifarsi nome: la montagna è il luogo del montano, anzi probabilmente i luoghi del montano — perché quel montanea dovrebbe essere un plurale, e questo, come vedremo, ci dice qualcosa.

Ma prima c’è da guardare quel mons: ci si rivela appartenente a una famiglia antica ed eterogenea, che ha quale stirpe la radice indoeuropea ricostruita come men- — parente dell’eminente (e dell’imminente), della minaccia, del mento. Il mons, il monte, ha il profilo di una sporgenza. Quanto suona strano ed esatto dire che i monti sporgono?

Ma la montagna, più del monte, non si limita esclusivamente a un rilievo. Mette in luce una complessità più articolata, ambientale, anche nei suoi usi figurati — e questa è l’intuizione plurale della montanea. Non a caso la ‘montagna’ è anche (e forse più che altro) la zona montuosa: si vanno a fare le vacanze in montagna, non al monte. Se ho un monte di scartoffie da sbrigare, mi figuro una massa imponente; ma se ho una montagna di scartoffie da sbrigare, ecco che questa si collega in catena, si allarga in contrafforti, si popola.


“Non lasciarci, papà, - implorava il figliolo Tonio. - Senza di te che faremo? […]”

“Non tormentarti, Tonino, - mormorò il sire. - Nessuno è necessario a questo mondo. […] Ma per la vostra salvezza, fratelli, mi dovete promettere una cosa. […] Tornate alle montagne. Lasciate questa città dove avete trovato la ricchezza, ma non la pace dell'animo. [...] Tornate quelli che eravate prima. […] Sarà triste staccarvi da tante belle cose, lo so, ma dopo vi sentirete più contenti, e diventerete anche più belli.”

D. Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia

Buzzati, si sa, semina le montagne come il prezzemolo, perfino in posti dove non dovrebbero stare. Per esempio in Sicilia, che certo non è priva di rispettabili rilievi ma qui diventa una succursale della Valle D’Aosta, irta di “montagne [che] si levano al cielo con la cima coperta di gelo”. È da lì che vengono i leggendari orsi ed è lì che ritornano, compiendo l’ultimo desiderio di re Leonzio.

Ma cosa rende la montagna così affascinante? Anche Buzzati se lo è chiesto, in un articolo oggi incluso in I fuorilegge della montagna. Anzitutto, scrive, la montagna è ripida. Il che può non sembrare un’illuminazione eclatante, ma in realtà dice molto sulla stramba psicologia umana: se la cima, invece di starsene dov’è, fosse in fondo alla valle, nessuno la guarderebbe due volte. È la fatica che dà valore alla meta e anche all’uomo che la raggiunge.

In effetti la montagna è un’attesa fatta pietra: tutto tende verso un punto nascosto e ogni passo è insieme una speranza e un pericolo. Forse s’arriverà alla meta e forse no, ma comunque il viaggio trasforma coloro che lo compiono; è un percorso di ascesi non meno che di ascesa, che passa per le terre del coraggio, della libertà, della fantasia. Non per nulla le montagne sono viste di malocchio da chi vorrebbe tutti sottomessi al proprio comando, come il Granduca nemico degli orsi.

In secondo luogo le montagne sono immobili. La potenza corrosiva del tempo sembra non avere effetto su di loro, quasi fossero di un altro mondo. Eppure si ha la sensazione che proprio loro custodiscano il segreto della nostra esistenza: inoltrarvisi è, come per gli orsi, un tornare a casa. Forse i monti – come recita l’articolo buzzatiano – sono il Massimo simbolo della suprema quiete, cui gli uomini aspirano inconsapevolmente per tutta la vita sebbene razionalmente la temano.

Certo è che i monti ci sono estranei e intimi nello stesso tempo (Lacan li avrebbe detti “estimi”). Non sono solo un luogo concreto, ma un paesaggio dell’anima. Perciò tornare alle montagne è anche un rientrare in noi stessi, nella nostra parte più pura e bella e vera. A dirla tutta, alle volte per tornare alle montagne non occorre neppure lasciare la città. Non è facile, però qualcuno riesce a portarsele sempre dentro; e così tutto quello che vede – foss’anche il centro di Milano – prende la loro forma e il loro mistero.

D. Buzzati, Piazza del Duomo di Milano

Parola pubblicata il 01 Febbraio 2022

Dino Buzzati, le parole e i disegni - con Lucia Masetti

Celebriamo il cinquantesimo anniversario della morte di Dino Buzzati, scrittore, pittore, giornalista — uno degli autori che amiamo di più — con una settimana di pubblicazioni a tema, col patrocinio dell’Associazione Internazionale Dino Buzzati.