SignificatoNel medioevo, ufficiale con compiti diversi, fra cui compiere missioni diplomatiche, annunciare leggi, presiedere a tornei; banditore, annunciatore
Etimologia dal francese héraut, che è dall’ipotetica voce francone hariwald ‘capo dell’esercito’.
Il nome dell’araldo ha una forza rappresentativa icastica. Racconta con incisività il profilo di una persona che, investita di un ruolo alto e ufficiale, porta un messaggio, annuncia, bandisce — in una veste dal tratto diplomatico, ma non dimentica di una certa fisicità e prestanza.
L’araldo non è una figura semplice, attraversa diversi secoli con tratti e funzioni differenti. E se ci aggiungiamo che questo nome medievale è stato poi proiettato indietro per parlare di figure dell’antichità classica, il minestrone è fatto. Ma è un minestrone intrigante, in cui è facile trovare linee di forza eterne e inattese.
L’origine del termine affonda nel mondo feudale — nemmeno a dirlo, francese. E anzi, è una di quelle parole che testimonia la dote germanica con cui nasce il francese, la dote franca. Infatti (come un numero impressionante di figure riconducibili al mondo guerresco dell’alto medioevo) il francese héraut nasce dall’ipotetica voce fràncone hariwald propriamente ‘capo dell’esercito’.
Ora, fra i ruoli dell’araldo spiccano quelli diplomatici: l’araldo va in missione, negozia, porta dichiarazioni, apre guerra e pace per conto di signori e signorie, feudatari e sovrani e comuni. Ma non solo. L’araldo, in questo vasto articolato mondo del medioevo, comunica alla comunità le decisioni e le leggi poste dall’autorità; inoltre è una figura centrale nei tornei. Proprio qui troviamo il nesso con la disciplina dell’araldica.
L’araldo ha avuto fra i suoi compiti quello di presiedere ai tornei — pensiamo a una sorta di presentatore, maestro di cerimonia (e un po’ anche istrione). Naturalmente doveva annunciare i partecipanti alle manche: partecipanti dotati di ricchi blasoni, che dovevano essere certo omaggiati e presentati, ma anche più concretamente riconosciuti e indicati, perché i cavalieri catafratti nell’armatura non erano altrimenti distinguibili. Quest’arte di presentazione contribuì non poco a dare ordine alla grammatica iconografica dei blasoni.
Il fatto che quindi l’araldo fosse un annunciatore di titoli nobiliari ha fatto sì che molti libri della fine del Settecento imperniati sull’arte del blasone, con quell’acume che svanisce al moltiplicarsi delle copiature, s’intitolassero Heraldus di qualcosa, o l’omologo nei volgari. Così il francese maturò l’héraldique che abbiamo mutuato in araldica.
Ma l’araldo, nei suoi significati figurati, non investe questo tratto cerimoniale dell’ufficiale storico: messo a sistema con figure antiche su cui non ci soffermiamo (dal keryx greco ai calator e apparitor latini), s’intreccia di fili che rendono la sua funzione ambasceria inviolabile e gazzetta, nella persona di un banditore stentoreo e fregiato.
Così possiamo parlare di come certe prime fioriture siano aralde della primavera, dell’araldo della verità che parla sul social network, mentre il ministro del dittatore periclitante vola all’estero a fare l’araldo di pace e di concordia.
Una parola la cui forza sta nella distillazione profonda in significati netti di lunghe esperienze umane.
Il nome dell’araldo ha una forza rappresentativa icastica. Racconta con incisività il profilo di una persona che, investita di un ruolo alto e ufficiale, porta un messaggio, annuncia, bandisce — in una veste dal tratto diplomatico, ma non dimentica di una certa fisicità e prestanza.
L’araldo non è una figura semplice, attraversa diversi secoli con tratti e funzioni differenti. E se ci aggiungiamo che questo nome medievale è stato poi proiettato indietro per parlare di figure dell’antichità classica, il minestrone è fatto. Ma è un minestrone intrigante, in cui è facile trovare linee di forza eterne e inattese.
L’origine del termine affonda nel mondo feudale — nemmeno a dirlo, francese. E anzi, è una di quelle parole che testimonia la dote germanica con cui nasce il francese, la dote franca. Infatti (come un numero impressionante di figure riconducibili al mondo guerresco dell’alto medioevo) il francese héraut nasce dall’ipotetica voce fràncone hariwald propriamente ‘capo dell’esercito’.
Ora, fra i ruoli dell’araldo spiccano quelli diplomatici: l’araldo va in missione, negozia, porta dichiarazioni, apre guerra e pace per conto di signori e signorie, feudatari e sovrani e comuni. Ma non solo. L’araldo, in questo vasto articolato mondo del medioevo, comunica alla comunità le decisioni e le leggi poste dall’autorità; inoltre è una figura centrale nei tornei. Proprio qui troviamo il nesso con la disciplina dell’araldica.
L’araldo ha avuto fra i suoi compiti quello di presiedere ai tornei — pensiamo a una sorta di presentatore, maestro di cerimonia (e un po’ anche istrione). Naturalmente doveva annunciare i partecipanti alle manche: partecipanti dotati di ricchi blasoni, che dovevano essere certo omaggiati e presentati, ma anche più concretamente riconosciuti e indicati, perché i cavalieri catafratti nell’armatura non erano altrimenti distinguibili. Quest’arte di presentazione contribuì non poco a dare ordine alla grammatica iconografica dei blasoni.
Il fatto che quindi l’araldo fosse un annunciatore di titoli nobiliari ha fatto sì che molti libri della fine del Settecento imperniati sull’arte del blasone, con quell’acume che svanisce al moltiplicarsi delle copiature, s’intitolassero Heraldus di qualcosa, o l’omologo nei volgari. Così il francese maturò l’héraldique che abbiamo mutuato in araldica.
Ma l’araldo, nei suoi significati figurati, non investe questo tratto cerimoniale dell’ufficiale storico: messo a sistema con figure antiche su cui non ci soffermiamo (dal keryx greco ai calator e apparitor latini), s’intreccia di fili che rendono la sua funzione ambasceria inviolabile e gazzetta, nella persona di un banditore stentoreo e fregiato.
Così possiamo parlare di come certe prime fioriture siano aralde della primavera, dell’araldo della verità che parla sul social network, mentre il ministro del dittatore periclitante vola all’estero a fare l’araldo di pace e di concordia.
Una parola la cui forza sta nella distillazione profonda in significati netti di lunghe esperienze umane.