Acume

Parole d'autore

a-cù-me

Significato Perspicacia, acutezza mentale; meno usualmente intensità di una sensazione

Etimologia voce dotta recuperata dal latino acumen, ‘punta’, derivato da acùere, ‘affilare’.

Il termine ‘acume’ non è propriamente un’invenzione di Dante: esisteva già in latino e, forse, anche in volgare. Tuttavia si può star certi che, non fosse stato per il Sommo, questa parola non avrebbe raggiunto né la diffusione né il significato che ha oggi. Per quei pochi che la usavano, infatti, ‘acume’ aveva un significato molto concreto: era la qualità di un oggetto appuntito. E allo stesso modo ‘aguzzare’ significava anzitutto affilare una lama.

Al contrario Dante usa questi termini quasi sempre in senso figurato. Per esempio all’inizio del Paradiso è il desiderio di conoscenza a essere acuminato: «La novità del suono e ’l grande lume / di lor cagion m’accesero un disio / mai non sentito di cotanto acume» (Par. I). Già Ulisse del resto aveva definito i propri compagni «aguti», ossia acutamente bramosi di passare le colonne d’Ercole (Inf. XXVI).

In altri momenti invece è la vista che dev’essere aguzzata, oppure è la luce divina che penetra negli occhi di Dante come una spada. Infine, nell’ultimo canto del Paradiso, ‘acume’ compare pressoché nell’accezione in cui lo conosciamo, come qualità intellettuale.

Ora, per noi queste metafore sono talmente usuali da non essere nemmeno più delle metafore; ma per un medievale possedevano ancora tutta la loro forza concreta. Dante quindi ci sta dicendo che conoscere equivale ad andare in guerra: vuol dire combattere corpo a corpo con le cose per strapparne il significato, penetrarle col pugnale dell’intelletto, lasciarsi ferire a sangue dalla lama del desiderio.

Del resto è una peculiarità di Dante quella di raffigurare con la massima concretezza i fenomeni più astratti, in particolare la conoscenza (ricordiamo l’intelletto che si rincantuccia nella verità come una bestiolina nella tana, in Par. IV). Inventa persino dei verbi ad hoc, come il famosamente brutto “inluiarsi”, ossia comprendere l’altro fino a entrare in lui, a compenetrarlo. Oppure “accarnare”, che nel concreto vorrebbe dire proprio penetrare la carne con una lama: “Se ben lo intendimento tuo accarno / con lo intelletto” (Pg XIV).

E anche in questo Dante è molto moderno. Ultimamente infatti c’è stata una massiccia riscoperta della embodied cognition, ossia del fatto che i processi cognitivi si radicano nelle interazioni del corpo con il mondo. L’intelletto, insomma, non è qualcosa di nobilmente astratto, come vorrebbe un dualismo di platonica memoria, bensì si plasma nell’azione concreta. Perciò, ad esempio, i gesti sono una parte importantissima della conversazione: ci aiutano non solo a comunicare ciò che vogliamo dire ma anche a pensarlo. Diverse ricerche infatti hanno mostrato che noi apprendiamo un argomento con più facilità se l’ascoltiamo o lo ripetiamo con l’ausilio dei gesti.

Anche la grafologia, ossia l’analisi della personalità attraverso la grafia, è ricollegabile a questo principio. Presuppone infatti che la materialità della scrittura rifletta i nostri schemi di pensiero, e che il modo in cui ci rapportiamo alle parole scritte abbia affinità con il modo in cui ci muoviamo nella realtà concreta. Così, per esempio, una scrittura angolosa e acuminata si assocerà probabilmente a un carattere spigoloso, ma potrebbe anche indicare – in determinati contesti grafici – una mente penetrante. In realtà quindi il legame tra l’acume e l’acuminato è ancora presente, appena al di sotto della nostra soglia di coscienza.

Parola pubblicata il 05 Aprile 2021

Parole d'autore - con Lucia Masetti

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