SignificatoBoccetta di piccole dimensioni che contiene prodotti di profumeria, cosmetica, o farmaci
Etimologia attraverso il francese flacon e il latino flasco, dalla voce germanica ricostruita come flasko.
Le inclinazioni e caratteristiche di una persona dipendono dalla sua genetica, da ciò che è stabilito nell’informazione identitaria del suo DNA, o piuttosto dall’ambiente, dalle esperienze di vita che conduce? Quanto possono diversificarsi due gemelli monozigoti, durante la loro vita? Se invece di persone parliamo di parole, le domande restano pertinenti. Ad esempio, dalla stessa matrice possono emergere cose che troviamo nel cassone dell’Ape del nonno e nei penetrali di profumerie e farmacie?
Spesso abbiamo una concezione della storia organizzata per pagine, come un sussidiario. Alla pagina prima c’è l’impero romano, alla pagina dopo ci sono i barbari; la scansione temporale dei grandi mutamenti storici però non è mai così netta, e ancor meno quella della successione delle lingue. Quando l’arrivo delle popolazioni gotiche o longobarde ha iniziato a seminare parole germaniche che sarebbero poi germinate come parole italiane — dalla bega allo schermire — la gente comune parlava ancora stabilmente latino. Magari non quello di Cicerone, ma pur sempre latino. Così capita che ci siano parole germaniche, barbariche, che sono prima entrate nel latino tardo, e che si sono diffuse popolarmente nell’Impero che in quei secoli stava smottando.
La voce germanica ricostruita come flasko o flaska (entrata in Italia anche per via gotica), qui da noi ha dato origine al fiasco. Dopotutto l’oggetto alla base di questi prestiti germanici era il recipiente rivestito, protetto da un intreccio di vimini, paglia — e tale resta il nostro rustico fiasco, buono per vino sincero e olio bono. Ma il latino lo accoglie e lo diffonde prima come flasco (flasconem al caso accusativo, che spesso è la base per le evoluzioni successive del termine), e la fonetica francese lo trasforma in flacon. Questo viaggio però muta anche l’oggetto, lo ripulisce al massimo concettuale. Beninteso: l’idea che questo recipiente sia in qualche modo da proteggere permane, ma perde l’impagliatura in favore di una maggiore cura ed eleganza.
Infatti il flacone — che l’italiano acquista proprio dal francese nella seconda metà del Settecento, quando il mondo occidentale ha un centro e quel centro è Parigi, fulcro di ogni finezza intellettuale e mondana — è la boccetta da profumeria o da farmacia. Rispetto al fratello si riduce drasticamente nelle dimensioni, che predicano la preziosità del contenuto: quando l’avido servo di messer Geri si presenta da Cisti fornaio a prendere un po’ del suo specialissimo vino con un gran fiasco, Cisti nota che con quello può andare a prendere l’acqua in Arno, non certo il suo prezioso vino («Adunque [...] a cui mi manda?» [...] «A Arno.» — Decameron, sesta giornata, seconda novella). Col flacone le dimensioni arrivano al minimo utile, e al massimo arriva la ricercatezza del contenuto: questa è la sua connotazione, che ha saputo tanto emanciparsi dalla barbarie e dal contado.
Un dentifricio può essere in tubetto da viaggio, ma un siero che non sia in un flacone è senz’altro vile; il flacone del farmaco da banco può anche essere di plastica e costare poco, ma la sua efficacia e il fatto che non si possa tracannare a garganella sono presidiati dal chiamarlo ‘flacone’; e i flaconcini coi campioni omaggio di profumo possono darsi a manciate in fondo ai sacchetti ed essere di dozzina, ma la connotazione è inchiodata a un pregio non meno che cortigiano.
Insomma, la parola pare semplice e commerciale, e lo è: ma questa, ora capiamo, è solo la fine della storia.
Le inclinazioni e caratteristiche di una persona dipendono dalla sua genetica, da ciò che è stabilito nell’informazione identitaria del suo DNA, o piuttosto dall’ambiente, dalle esperienze di vita che conduce? Quanto possono diversificarsi due gemelli monozigoti, durante la loro vita? Se invece di persone parliamo di parole, le domande restano pertinenti. Ad esempio, dalla stessa matrice possono emergere cose che troviamo nel cassone dell’Ape del nonno e nei penetrali di profumerie e farmacie?
Spesso abbiamo una concezione della storia organizzata per pagine, come un sussidiario. Alla pagina prima c’è l’impero romano, alla pagina dopo ci sono i barbari; la scansione temporale dei grandi mutamenti storici però non è mai così netta, e ancor meno quella della successione delle lingue. Quando l’arrivo delle popolazioni gotiche o longobarde ha iniziato a seminare parole germaniche che sarebbero poi germinate come parole italiane — dalla bega allo schermire — la gente comune parlava ancora stabilmente latino. Magari non quello di Cicerone, ma pur sempre latino. Così capita che ci siano parole germaniche, barbariche, che sono prima entrate nel latino tardo, e che si sono diffuse popolarmente nell’Impero che in quei secoli stava smottando.
La voce germanica ricostruita come flasko o flaska (entrata in Italia anche per via gotica), qui da noi ha dato origine al fiasco. Dopotutto l’oggetto alla base di questi prestiti germanici era il recipiente rivestito, protetto da un intreccio di vimini, paglia — e tale resta il nostro rustico fiasco, buono per vino sincero e olio bono. Ma il latino lo accoglie e lo diffonde prima come flasco (flasconem al caso accusativo, che spesso è la base per le evoluzioni successive del termine), e la fonetica francese lo trasforma in flacon. Questo viaggio però muta anche l’oggetto, lo ripulisce al massimo concettuale. Beninteso: l’idea che questo recipiente sia in qualche modo da proteggere permane, ma perde l’impagliatura in favore di una maggiore cura ed eleganza.
Infatti il flacone — che l’italiano acquista proprio dal francese nella seconda metà del Settecento, quando il mondo occidentale ha un centro e quel centro è Parigi, fulcro di ogni finezza intellettuale e mondana — è la boccetta da profumeria o da farmacia.
Rispetto al fratello si riduce drasticamente nelle dimensioni, che predicano la preziosità del contenuto: quando l’avido servo di messer Geri si presenta da Cisti fornaio a prendere un po’ del suo specialissimo vino con un gran fiasco, Cisti nota che con quello può andare a prendere l’acqua in Arno, non certo il suo prezioso vino («Adunque [...] a cui mi manda?» [...] «A Arno.» — Decameron, sesta giornata, seconda novella). Col flacone le dimensioni arrivano al minimo utile, e al massimo arriva la ricercatezza del contenuto: questa è la sua connotazione, che ha saputo tanto emanciparsi dalla barbarie e dal contado.
Un dentifricio può essere in tubetto da viaggio, ma un siero che non sia in un flacone è senz’altro vile; il flacone del farmaco da banco può anche essere di plastica e costare poco, ma la sua efficacia e il fatto che non si possa tracannare a garganella sono presidiati dal chiamarlo ‘flacone’; e i flaconcini coi campioni omaggio di profumo possono darsi a manciate in fondo ai sacchetti ed essere di dozzina, ma la connotazione è inchiodata a un pregio non meno che cortigiano.
Insomma, la parola pare semplice e commerciale, e lo è: ma questa, ora capiamo, è solo la fine della storia.