Etimologia dallo spagnolo regalar ‘far doni, adulare’, ma propriamente ‘far festa, accogliere’, dal francese régaler ‘offrire’, da galer ‘divertirsi’, con prefisso re-.
Si trova riportato che il regalo sarebbe in origine il dono fatto al re. È senz’altro un’ipotesi suggestiva, e non poi bizzarra: ci basti pensare all’omaggio, che da atto di sottomissione feudale al sovrano si fa gadget da supermercato. Esiste già, ed è già battuta, una via di normalizzazione del prestigio che parte dalle sale del trono e arriva a noi che le fantastichiamo. Ma la storia del regalo è differente.
Il regalo nasce dal regalare, che mutuiamo dallo spagnolo regalar — un ‘fare doni’ che però non si esaurisce nello scambio materiale: è anche un ‘lusingare’. Non sono concetti che si siedano lontani, nella nostra vita: spesso il regalo ha una componente di adulazione. E però scaturiscono da un più ampio e precedente significato di ‘far festa, accogliere’, atto e situazione intera, in cui la lusinga e il dono sono di casa. In effetti, il regalar spagnolo deriva dal francese régaler, che è un offrire, un dare a godere — portato nella complessità echeggiante del contesto sociale dal prefisso re-, installato su un già mondanissimogaler ‘divertirsi’. Verbo cardinale, da cui peraltro il galante, il gala e via dicendo: roba un pezzo oltre alle formalità della cortesia, che si pone in un orizzonte gaudente, seducente e be’, ricco.
No, il regalo non ha la serietà poetica del dono, spesso oblativa e compresa nel proprio gesto. Nasce ed esiste, piuttosto, nella dimensione delle cortesie per gli ospiti, nello spazio dell’incontro festoso, nelle intenzioni di affetto, considerazione, adulazione — con qualche passo di calcolo. Insomma, calza meravigliosamente sulla manifestazione salottiera e brillante che il più delle volte questo dare è.
Difatti, specie negli ultimi decenni, ha recuperato molto terreno sul dono stesso, surclassando nell’uso anche le affettazioni dell’omaggio. Da un lato è e resta un dare che non chiede indietro (non esplicitamente), e però è disinvolto, sveglio, agile — specie quando diventa un regalino. Cosa che al dono è preclusa (non abbiamo donini). Insomma, l’affermazione del regalo ci permette una splendida modulazione: se vogliamo valorizzare la prospettiva morale o addirittura spirituale di qualcosa che diamo o riceviamo liberamente, abbiamo la meraviglia del dono. Quando invece ci serve un abito meno solenne, per qualcosa che si dà in maniera galante o amichevole o accattivante, abbiamo quella del regalo. Sempre in quest’ottica, peraltro, il regalo diventa anche ciò che si compra a un prezzo ottimo, e in generale la cosa gradita: se la presenza di qualcuno è un bel regalo, senz’altro ci fa parecchio piacere — ma è un piacere contingente: ci sono anche le presenze che sono doni.
Una semplicità incisiva che pare essa stessa un inestimabile… be’, dono.
Si trova riportato che il regalo sarebbe in origine il dono fatto al re. È senz’altro un’ipotesi suggestiva, e non poi bizzarra: ci basti pensare all’omaggio, che da atto di sottomissione feudale al sovrano si fa gadget da supermercato. Esiste già, ed è già battuta, una via di normalizzazione del prestigio che parte dalle sale del trono e arriva a noi che le fantastichiamo. Ma la storia del regalo è differente.
Il regalo nasce dal regalare, che mutuiamo dallo spagnolo regalar — un ‘fare doni’ che però non si esaurisce nello scambio materiale: è anche un ‘lusingare’. Non sono concetti che si siedano lontani, nella nostra vita: spesso il regalo ha una componente di adulazione. E però scaturiscono da un più ampio e precedente significato di ‘far festa, accogliere’, atto e situazione intera, in cui la lusinga e il dono sono di casa. In effetti, il regalar spagnolo deriva dal francese régaler, che è un offrire, un dare a godere — portato nella complessità echeggiante del contesto sociale dal prefisso re-, installato su un già mondanissimo galer ‘divertirsi’. Verbo cardinale, da cui peraltro il galante, il gala e via dicendo: roba un pezzo oltre alle formalità della cortesia, che si pone in un orizzonte gaudente, seducente e be’, ricco.
No, il regalo non ha la serietà poetica del dono, spesso oblativa e compresa nel proprio gesto. Nasce ed esiste, piuttosto, nella dimensione delle cortesie per gli ospiti, nello spazio dell’incontro festoso, nelle intenzioni di affetto, considerazione, adulazione — con qualche passo di calcolo. Insomma, calza meravigliosamente sulla manifestazione salottiera e brillante che il più delle volte questo dare è.
Difatti, specie negli ultimi decenni, ha recuperato molto terreno sul dono stesso, surclassando nell’uso anche le affettazioni dell’omaggio. Da un lato è e resta un dare che non chiede indietro (non esplicitamente), e però è disinvolto, sveglio, agile — specie quando diventa un regalino. Cosa che al dono è preclusa (non abbiamo donini). Insomma, l’affermazione del regalo ci permette una splendida modulazione: se vogliamo valorizzare la prospettiva morale o addirittura spirituale di qualcosa che diamo o riceviamo liberamente, abbiamo la meraviglia del dono. Quando invece ci serve un abito meno solenne, per qualcosa che si dà in maniera galante o amichevole o accattivante, abbiamo quella del regalo. Sempre in quest’ottica, peraltro, il regalo diventa anche ciò che si compra a un prezzo ottimo, e in generale la cosa gradita: se la presenza di qualcuno è un bel regalo, senz’altro ci fa parecchio piacere — ma è un piacere contingente: ci sono anche le presenze che sono doni.
Una semplicità incisiva che pare essa stessa un inestimabile… be’, dono.