Reminiscenza

re-mi-ni-scèn-za

Significato Il richiamare alla mente ricordi vaghi e lontani, e questo genere stesso di ricordi; riecheggiamento, imitazione

Etimologia voce dotta recuperata dal latino tardo reminiscentia, da reminisci ‘ricordare’.

Sappiamo bene quanto possano essere diversi, fra loro, i ricordi: investono i sensi nelle maniere più proteiformi, e possono risultare in impressioni nette, perfettamente disponibili, richiamabili, ripercorribili — in un sapere schietto —, così come possono essere ombre sfocate, a cui si accede quasi senza intenzione, fra echi distorti e illeggibili, anche se bizzarramente eloquenti.

La reminiscenza ci parla di questo secondo polo di memoria. Se vogliamo, non è il ricordo che si sa, è il ricordo che si ricorda, che ci rivisita o che rivisitiamo, con una certa sorpresa, quando era quasi dimenticato. La lunghezza di questo nome, la concinnità delle vocali e-i-i-e segue quasi la fatica del seguire un riverbero labirintico, del riconoscere un profilo perduto, che non si vedeva da tanto tempo, e che però è vestigio, tassello di una storia che ci suona, nota — magari nostra.

Nel suo etimo, nulla preluderebbe a una selezione così precisa dei significati, a un colore così netto: infatti reminisci, in latino, significa ‘ricordare’ — e quando il tardo reminiscentia viene preso in prestito dal giovane italiano, la reminiscenza è la ricordanza, la capacità di richiamare alla mente un ricordo, e il ricordo stesso. Che è successo, allora? Com’è che la reminiscenza diventa il ricordo vago e sbiadito?

Certo: alcuni esiti sono frutto di un’integrazione di contributi e scelte infinitesimali di tante generazioni di parlanti e scriventi — senza che siano determinati in battaglie lessicali campali, o per decreti di singole persone. Però ci sono due fattori che possiamo considerare.

Il primo è che il ricordo, per eccellenza poetica, è il ricordo sbiadito. Se si ha una parola aulica, letteraria, dagli alti destini come ‘reminiscenza’, è plausibile che si spenda volentieri sul versante più fascinoso del ricordo, su quello più problematico, ricco di sentimento; il ricordo che non è cronaca, ma impressione quasi inconscia, quasi oracolare, che si stacca dall’oblio.

Il secondo è Platone. Nel Rinascimento la filosofia platonica ha avuto un grandissimo ritorno di successo, e in particolare la sua dottrina dell’anamnesi viene raccontata da subito (‘400-’500) usando volentieri il termine ‘reminiscenza’: è una dottrina secondo cui ogni conoscenza è ricordo del preesistente sovramondano, iperuranio — io non acquisto, non fondo la conoscenza di un teorema: lo ricordo. Una dottrina molto metafisica (diciamo pure molto poetica e molto fantasiosa), che ha un’incisività formidabile nel descrivere il recupero di un sapere obliato, di un ricordo che si era spento.

Quale che sia la ragione per cui la reminiscenza è diventata il ricordo scontornato di qualcosa lontano, al sentire parlare di un libro possiamo avere delle reminiscenze di quando ne leggemmo un brano a scuola, una vecchia fotografia mi risveglia delle inafferrabili reminiscenze, e al tuo racconto, sì, mi affiorano delle reminiscenze di quell’episodio.

È per questo che la reminiscenza diventa anche, in arte, il riecheggiamento, l’imitazione: se nel nuovo brano musicale sento delle reminiscenze di un compositore antico, se nello spettacolo teatrale si trovano reminiscenze scespiriane, se nella poesia trovo delle reminiscenze dantesche, non sto trovando citazioni, intrecci, riprese chiare e distinte. Sto trovando echi lontani, in una dimensione profonda d’imitazione dell’immaginazione — un’analogia poetica, fantastica, tecnica, onirica, in cui qualcosa mi ricorda qualcos’altro.

Parola pubblicata il 25 Dicembre 2021