Tolleranza

tol-le-ràn-za

Significato Capacità di sopportazione dello sgradevole o del dannoso; atteggiamento di accettazione di differenze specie ideali; divergenza ammessa rispetto allo stabilito

Etimologia dal latino tolerantia, derivato di tolerare ‘sostenere, sopportare’, derivato di tòllere ‘sollevare, innalzare’.

Vi fu un tempo in cui i dissenzienti (…) invocavano la tolleranza come una grazia, oggi la chiedono come un diritto, ma verrà un giorno in cui la sdegneranno come un insulto.

Così, con rimarchevole preveggenza, si esprimeva James Stanhope (1673-1721) parlando alla Camera dei Lord. In effetti, oggi tolleranza è una parola davvero curiosa, il cui apprezzamento è inversamente proporzionale a quanto si è combattuto in passato per affermarla, nel principio e nella pratica. Il motivo per cui piace poco ce l’ha scritto addosso: viene dal latino tolerantia, derivato da tolerare ‘sopportare, sostenere’, a sua volta da tollere ‘sollevare’. Tollerare qualcosa, quindi, è letteralmente reggerlo, sopportarlo. Tutt’altra cosa dal significato attuale di «accettazione e rispetto verso idee, opinioni, religioni diverse dalle proprie» (Zingarelli 2023). Come ci siamo arrivati?

Il punto di partenza è l’Europa del XVI secolo, sconvolta dalle divisioni religiose provocate dalla Riforma protestante (non a caso, tolleranza è da sempre classicamente abbinata all’aggettivo religiosa). Prima di allora – nel senso politico, collettivo che qui c’interessa – la tolleranza non esisteva. Nel mondo greco-romano, tolleranza e intolleranza erano concetti estranei all’orizzonte culturale e mentale: il politeismo era tendenzialmente accogliente e sincretista, incline a non reprimere nessun culto per paura di inimicarsi qualunque divinità, anche ignota, ed eventuali repressioni erano motivate essenzialmente da ragioni di ordine pubblico. In epoca medievale, invece, il cristianesimo – religione rivelata per cui l’errore di fede era peccato oltre che crimine – represse duramente l’eterodossia, spazzando via i ‘movimenti ereticali’ senza remora alcuna. Potendo estirpare, non c’era bisogno di tollerare.

Con la Riforma protestante cambia tutto, perché essa gode di appoggi politici: non si tratta più di gruppi isolati e inermi, facilmente perseguitabili. È allora che nasce la tolleranza, come necessità di sopportare – perché è impossibile, problematico o controproducente impedirlo – ciò che si esecra e aborre; come concessione, sempre revocabile, da parte di chi detiene un potere. Per gli intellettuali cinquecenteschi, infatti, la tolleranza è instrumentum regni, strumento di governo, strategia dettata da ragioni di opportunità, per salvaguardare lo Stato. Poi, certo, c’era anche chi – come Marsilio Ficino – volava più alto, invocando una ‘religione filosofica’ o ‘naturale’ in nome dell’universalità del sentimento religioso, al di là delle sottigliezze dottrinali: ma una tale prospettiva unificatrice, a ben vedere, vuole scongiurare l’intolleranza non riconoscendo la molteplicità bensì sopprimendola.

Tutto cambia, apparentemente, nel Seicento, quando si affaccia il principio liberale della laicità dello Stato. John Locke sostiene con forza che il potere politico non deve occuparsi della salvezza delle anime, né viceversa quello spirituale ingerirsi nelle faccende politiche. La fede è un fatto individuale e insindacabile: ogni Chiesa ha il diritto di scomunicare i suoi membri, ma non di usare la forza per punire i dissenzienti. Questione chiusa, quindi? Siamo giunti infine alla tolleranza come la intendiamo oggi? Non proprio. Locke escludeva due categorie di persone dalla tolleranza: i cattolici («perché, dove essi hanno il potere, si ritengono obbligati a negare la tolleranza agli altri») e gli atei; questi ultimi con una motivazione illuminante: «chi elimina dalle fondamenta la religione per mezzo dell’ateismo, non può in nome della religione rivendicare a se stesso il privilegio della tolleranza». Per Locke, cioè, la tolleranza è tutta interna al cristianesimo, senza il quale non è neppure concepibile: non è più concessa obtorto collo, come nel secolo precedente, ma per carità cristiana, virtù che ribadisce la superiorità spirituale del concessore.

Che cosa manca, allora, per arrivare alla nostra tolleranza? Manca l’Illuminismo; manca Voltaire, colui che, proclamatosi orgogliosamente filosofo ignorante, ha scritto alla voce Tolleranza del suo Dizionario filosofico: «Siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze». Ecco l’ingrediente mancante: la rinuncia alle verità assolute, il relativismo, il razionalismo scettico. Se pensi di possedere la verità, credi anche di doverla difendere ad ogni costo dall’errore. Così invece la tolleranza si fa accettazione, libertà di opinione, società aperta – e quindi non è più tolleranza: quando si realizza, scompare.

Un Voltaire benigno e simpatico continua a sorriderci da un ritratto di Nicolas de Largillière del 1724 — e ci invita a tollerare certi accostamenti di colori del suo vestiario.

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? No, non siamo in una fiaba. La tolleranza resta un concetto problematico, per almeno due ragioni. Anzitutto, per quello che Karl Popper ha chiamato paradosso della tolleranza: una società tollerante, per restare tale, non deve tollerare gli intolleranti, pena essere da loro dominata prima o poi. Ma il vero punto di frizione si ha con l’atteggiamento antitetico a quello esposto sin qui: quello di chi respinge il relativismo equiparandolo all’indifferenza, ritenendo che tollerare il male e l’errore equivalga a non tollerare il bene e la verità; di chi ai tolleranti contrappone, per dirla con Benedetto Croce, «gli spiriti vigorosi», che «ammazzavano e si facevano ammazzare» per le loro idee. Due visioni evidentemente incompatibili, ma va bene così: oggi, per fortuna, non confondiamo più l’inconciliabilità tra opinioni con quella tra persone.

Parola pubblicata il 06 Settembre 2022

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I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.