Falò

fa-lò

Significato Grande fuoco acceso all’aperto

Etimologia etimo incerto: forse dal greco phanós ‘torcia’, o forse da pháros ‘faro’.

  • «Quella sera accendemmo un falò, e ci fu una grande festa.»

Certe parole sono precise in una maniera che sorprende. Che cosa rende un semplice fuoco un falò? Rispondere a questa domanda permette di leggere alcune particolari funzioni sociali che il fuoco ha — anche diversissime fra loro.

Il falò è un fuoco grande e fatto all’aperto. È più transitorio di certi altri fuochi perché ha degli scopi piuttosto precisi, che si consumano in un lasso di tempo relativo. Non è un fuoco disciplinato per riscaldamento e cottura in luoghi stabilmente adibiti: è dominato — non è un incendio libero — ma ne viene garantita una certa forza selvaggia.

Con questa intensità il falò si presta a una dimensione pubblica: è un centro attorno a cui si aggrega una festa, secondo un uso che probabilmente è più antico di qualunque civiltà. Ha avuto una tradizione anche religiosa e di devozione che forse oggi è meno presente ed evidente, ma la sua è una vampa a cui volentieri si chiede di rispecchiare un certo ardore di sentimento. Il falò in spiaggia (severamente vietato, attenzione) non serve a riscaldare o illuminare o cuocere in modo efficiente, quanto a campire una certa atmosfera, a echeggiare allegria.

E sempre in quest’ottica di pubblicità mostra anche la caratteristica di essere molto ben visibile, di notte, e quindi acquisisce anche la funzione di segnale: i falò sono stati a lungo usati per trasmettere messaggi, ordini. Addirittura c’è chi ne fa risalire il nome al greco pháros, cioè ‘faro’.

Ma il falò non è tutto festa e sbrilluccichii nel buio: ha anche un tratto distruttivo. È un mezzo antico ed efficace per consumare qualcosa, e in particolare per farlo in maniera plateale, spettacolare e purificatoria — tanto che è specialmente questo falò ad appiccarsi al nostro immaginario e ad acquisire usi figurati.

Ci sono falò di questo tipo meno carichi di significato, come i falò con cui si smaltiscono sterpaglie e potature, e ci sono falò che restano nella storia, come i falò delle vanità della Firenze di Savonarola, in cui furono bruciati peccaminosi cosmetici, abiti, e un vero tesoro di libri, quadri, statue. Similmente posso fare un falò letterale o metaforico delle vecchie riviste ammassate accanto alla poltrona, o della prima bozza di un romanzo (anche se questo genere di opera si mostra spesso resistente a distruzioni di questo tipo — «I manoscritti non bruciano» dice Woland in un passo splendido de Il Maestro e Margherita di Bulgakov).

C’è un ultimo passo sottile e importante da fare.
Anche nella sua accezione distruttiva, che può essere dolorosa, il falò mantiene un profilo festoso, o almeno non negativo. Ci suonerebbe strano dire che i nazisti fecero un falò dei libri scritti da intellettuali di origine ebraica — sarebbe una dicitura un po’ leggera, e preferiamo usare un termine molto più grave e cupo, rogo. Il falò di libri è quello che fantastichiamo di fare con quelli che ci è toccato studiare per forza e abbiamo odiato a ogni riga — anche se poi non lo facciamo perché possiamo rivenderli. Quella che ci offre il falò è una distruzione che libera, che esorcizza: posso anche fare un falò delle idee che avevo maturato, dei giudizi che avevo formulato.

Parola pubblicata il 01 Ottobre 2022