Fegato

fé-ga-to

Significato Grande ghiandola dei vertebrati che svolge una quantità di funzioni metaboliche essenziali; idealmente, sede della rabbia e del coraggio; coraggio, ardimento

Etimologia dal latino (iecur) ficàtum ‘(fegato) ficato, ingrassato coi fichi’, modellato sull’omologo greco hêpar sykotón.

In questa parola conserviamo usi e credenze che non ci aspetteremmo: infatti essa non nasce come termine anatomico, bensì culinario.

Il nome ‘fegato’ significa letteralmente qualcosa come ‘ficàto’ (ficatum), e in effetti descriveva una sorta di foie gras che i Romani copiarono dai Greci, presso i quali aveva il nome di sykotón (sŷkon è ‘fico’): fegato di oche ingrassate a fichi, che pare fosse una delle grandi delizie dell’antichità — ah, queste decadenze ellenizzanti…

L’esito è sorprendente: tanto celebre diventa il ficatum in età imperiale da finire per scalzare completamente, e in tutta la vasta area delle lingue neolatine, il precedente latino iecur, che aveva onorevolmente servito la lingua indicando per secoli il fegato, a partire da una radice indoeuropea. Da un lato l’italiano è una lingua che di carisma culinario ne sa qualcosa, e quindi per sprezzatura non dovremmo alzare un sopracciglio, dall’altro non possiamo fingere che non sia quasi incredibile — come se di qui a pochi secoli i nostri discendenti andando dal medico potessero chiedere un antiacido perché hanno male al lampredotto. (Peraltro la spiegazione del passaggio fonetico da ficàtum a fégato è tutt’altro che liscia, e ha affaticato molti linguisti).

Inoltre, di tutte le molte, ricche e variegate viscere che teniamo gelosamente insaccate, il fegato è la più emozionale — seconda solo al cuore, forse. E in effetti vive nella lingua in vesti che vanno ben oltre il suo anatomico essere grande ghiandola dalle mille funzioni, raccontando sentimenti dei più accesi. Da un lato è il luogo in cui immaginiamo (o sentiamo?) la rabbia, come quando ci rodiamo il fegato per la sconfitta, come quando ci facciamo venire un fegato così a forza di ingoiare rospi; dall’altro è la tradizionale sede del coraggio, dell’ardimento — per cui, anche se in effetti non ci figuriamo di attingere a chissà quale bile per l’audacia, continuiamo a dire che non ho avuto il fegato di farlo, a domandare dove hai trovato il fegato per proporti.

Riassumendo la nota antropologica, siamo gente che racconta l’organico dialogo interiore con le proprie emozioni col nome di una specialità culinaria degli antenati, e in ultima analisi col nome di un frutto. Le uniche che non ridono sono le oche.

Parola pubblicata il 11 Marzo 2021