Languire
Scorci letterari
lan-guì-re (io lan-guì-sco)
Significato Essere in uno stato di prostrazione; struggersi, indebolirsi, venir meno
Etimologia voce dotta, recuperata dal latino languére.
Parola pubblicata il 07 Maggio 2018
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Questa è una parola di una complessità elevata - non perché suoni astrusa, ma perché ha dei significati molto fini. Tant’è che non si sente usare molto spesso.
L’etimologia non aiuta, non ci dà lo straccio di un addentellato: sappiamo solo di un languere latino, di origine indoeuropea, recuperato agli albori dell’italiano coi significati classici. Il languire è un verbo che ci parla di abbattimento, di inerzia, di indebolimento, volentieri di malattia, e arriva perfino a una malinconia decadente - e ce ne parla sia nel senso di un permanere in questi stati, sia nel loro prodursi.
Dopo pranzo languisco sul divano in attesa d’ispirazione per mettermi a fare le pulizie; il mio affetto verso l’amica noncurante languisce; il collega manda a chiamare il prete mentre languisce con trentasette e due di febbre; l’amico risolve il suo languire invitando a uscire la bella del suo cuor; e abbiamo compassione e rabbia per chi languisce lamentoso senza baleno d’intraprendenza.
Ora, ovviamente il languire ci fa pensare al languido e al languore, e certo sono parole parenti, ma a trattarle tutte insieme si rischia di non coglierne le cifre distintive; in questo quadro già articolato, infatti, inseriscono il desiderio, e la smanceria (pensiamo al languorino, o allo sguardo languido).
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(T. Tasso, Gerusalemme liberata, canto XII, strofa LXIV)
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.
Eccoci di fronte a un altro gigante dell’epica cinquecentesca. L’episodio è celeberrimo: il crociato Tancredi è impegnato in una lotta all’ultimo sangue con un cavaliere musulmano; non sa però che si tratta di Clorinda, la donna di cui è perdutamente innamorato. Lo scoprirà soltanto alla fine, dopo averla trafitta a morte.
Dunque amore e guerra qui trascolorano ambiguamente l’uno nell’altra; tanto che l’azione conclusiva è descritta in toni sottilmente sensuali, indugiando sulla penetrazione della spada, sul seno morbido, sulle membra languenti.
Del resto l’ambiguità è tipica di tutta l’opera che, pur aspirando a un solido fondamento etico-religioso, è percorsa da un’indefinibile inquietudine, da un’inconfessata nostalgia. Eppure proprio questo fremito sotterraneo l’ha resa un capolavoro.
I personaggi, in particolare, sono insolitamente complessi. Clorinda ad esempio è una donna forte e indipendente, che per necessità nasconde il suo animo sotto un’armatura. Solo Tancredi, con l’intuizione dell’amore, sa vedere la sua vera bellezza; ma non quando ce ne sarebbe più bisogno. Eppure proprio nella morte l’identità doppia di Clorinda sembra ricomporsi: il suo corpo si riappropria della sua femminilità, voluttuosa e fragile al contempo; e l’anima si mostra finalmente in tutta la sua nobile tenerezza.
Tancredi, poi, è un giovane valoroso e di alti ideali, ma la forza nelle armi si accompagna a una vulnerabilità nascosta. Così, diviso tra desideri opposti, li fallisce entrambi: non riesce a portare a termine le proprie gesta e uccide l’oggetto del suo amore.
In fondo, questo cavaliere imperfetto è fatto della nostra stessa pasta: un misto di ideali e passioni, di amore e aggressività. Perché è tremendamente facile fare del male a chi si ama, anche senza volerlo. In un certo senso, come scrisse Oscar Wilde, “ogni uomo uccide ciò che ama […]: gli uni uccidono con uno sguardo di odio, gli altri con parole carezzevoli; il vigliacco lo fa con un bacio, l’eroe con la spada.”