Mentalizzazione
men-ta-liz-za-zió-ne
Significato Capacità di rappresentare e di interpretare i comportamenti propri e altrui come il risultato di stati mentali interni, come credenze, desideri, intenzioni, emozioni, conoscenze
Etimologia derivato moderno dalla base aggettivale mental-, dal latino mens, mentis ‘mente, intelletto’, con il suffisso -izzazione che indica il processo del rendere. Termine coniato nell’ambito della psicologia e psicoanalisi contemporanea.
- «Non mi capirà mai, la mentalizzazione non è il suo forte.»
Parola pubblicata il 18 Dicembre 2025 • di Greta Mazzaggio
No, non stiamo parlando delle abilità dei mentalisti, quegli artisti del paranormale e della chiaroveggenza che ci fanno credere di sapere se abbiamo estratto dal mazzo di carte una donna di cuori o un re di fiori. O, perlomeno, non direttamente. Certo, il richiamo alla mente è inevitabile: sicuramente questi prestigiatori hanno delle abilità uniche di leggere e influire sulle menti altrui. Tuttavia, la mentalizzazione non è un trucco da palcoscenico ma è parte di tutti noi, è quella straordinaria capacità che ci rende umani tra gli umani.
Infatti, secondo una definizione nata in ambito psicologico, la mentalizzazione è quella facoltà per cui, osservando un volto corrucciato, non ci limitiamo a registrarne i tratti somatici, ma vi leggiamo un universo interiore: pensieri celati, intenzioni oblique, affetti repressi. È l'operazione intellettuale, tanto spontanea quanto sofisticata, mediante la quale attribuiamo agli altri una vita mentale analoga, ma soprattutto dissimile, alla nostra, postulando come gli individui siano un teatro di rappresentazioni, credenze, desideri, e che questi non siano necessariamente il riflesso dei nostri. Senza mentalizzazione, l'altro sarebbe mero automa, superficie opaca priva di profondità psichica. O, peggio, un nostro alter-ego, una copia carbone della nostra mente. È ciò che accade nei bambini piccoli, quando non hanno ancora imparato a distinguere i propri pensieri da quelli altrui: se a loro piace un gioco, non concepiscono che a te possa annoiare.
Tuttavia, questa facoltà fondativa non è invulnerabile. Nei disturbi borderline, il problema non è la mancanza di mentalizzazione, ma il suo eccesso. La mente legge troppo, interpreta tutto, trova significati dove forse non ce ne sono. Un messaggio non risposto diventa rifiuto, uno sguardo distratto si trasforma in tradimento. È la cosiddetta ipermentalizzazione: vedere trame ovunque, anche dove c’è solo silenzio. All’estremo opposto, nelle psicosi gravi o in certe forme di dipendenza, la mentalizzazione si ‘spegne’: l’altro appare come un corpo senza profondità, una presenza piatta, senza intenzioni né pensieri.
Ma da dove spunta questo termine che evoca capacità così profonde eppure suona così tecnico, quasi burocratico? Ebbene, mentalizzazione è uno di quei vocaboli che potremmo definire tecnicismi ‘in borghese’: parole nate negli austeri salotti della riflessione filosofica e scientifica, che sono poi uscite dalla torre d’avorio per farsi spazio nel linguaggio comune. Come nota l’Accademia della Crsuca, non la troverete nei dizionari più antichi, e ancora oggi il correttore automatico la sottolinea in rosso, come se non esistesse (sì, sta succedendo proprio ora – provare per credere). Eppure esiste, eccome.
La storia di mentalizzazione (e del verbo corrispondente mentalizzare) è un affascinante viaggio attraverso continenti disciplinari e secoli. Il primo a usarla fu Vincenzo Gioberti, sacerdote e filosofo del Risorgimento, che – come indicato nel Grande dizionario della lingua italiana – 1857 scrisse: «Dante afferra sempre il lato ideale delle cose e mentalizza il sensibile.» Per lui significava ‘astrarre, idealizzare’: un verbo filosofico più che umano. E infatti, per tutto l'Ottocento, rimase tecnicismo isolato, significativo per pochi eletti pensatori ma difficilmente esportabile in contesti più ampi.
Ma è nel Novecento che mentalizzazione conosce la sua vera metamorfosi. Gli ambiti d'uso si moltiplicano vertiginosamente con psicologia e medicina che diventano i terreni privilegiati della sua diffusione. Lo psicologo svizzero Édouard Claparède introduce mentalisation e lo adotta per descrivere l’elaborazione psichica di tensioni interiori. Poi lo psicoanalista Pierre Marty gli dà un nuovo peso, in ambito psicosomatico: mentalizzare diventa la capacità di elaborare traumi e disagi, e un suo deficit – una sorta di carenza della capacità di simbolizzazione – è considerato alla base dello sprigionarsi dei sintomi psicosomatici. Negli anni Duemila, la svolta: la mentalizzazione entra nel vocabolario delle teorie della mente (dall’inglese Theory of Mind, altro modo di definire mentalizzazione). Da allora indica ciò che vi abbiamo raccontato in apertura, la capacità di attribuire stati mentali a sé e agli altri, la facoltà di ‘leggere’ le menti.
E oggi? Oggi mentalizzazione pare uscire dai recinti accademici, la troviamo nei giornali e nei blog, pur mantenendo un suo registro alto e legato ad ambiti spesso specialistici, varcando anche i confini dello sport, con la nutrizionista del tennista Nadal che spiega come «alcuni cambiamenti richiedono un tempo di mentalizzazione preliminare» (dal Corriere della Sera) – intendendo quel periodo in cui la mente si prepara ad accogliere il nuovo prima che il corpo lo segua. Avanti dunque con questa parola che è una parola che dovrebbe diventare quotidiana, in un tempo in cui l'ascolto della mente e la comprensione reciproca sembrano virtù in estinzione. Perché mentalizzare non è solo un concetto psicologico: è un esercizio di civiltà. È la bussola nell'oceano delle menti nostre e di quelle altrui – e, a ben vedere, il modo più raffinato che abbiamo per ricordarci che dietro ogni volto c'è una storia che non ci appartiene, ma che vale la pena di apprendere, rispettare, e – perché no? – anche solo provare a immaginare.