Monofagia
Leopardi spiega parole
mo-no-fa-gì-a
Significato Alimentazione basata sull’uso quasi esclusivo di un unico alimento o di un solo gruppo di alimenti
Etimologia dal greco monophaghìa ‘il mangiare da solo’, composto da mònos ‘solo’ e da phagìa, che indica l’atto del mangiare (phàghein).
- «La caratteristica alimentare di molti parassiti è la monofagia»
Parola pubblicata il 05 Settembre 2022
Leopardi spiega parole - con Andrea Maltoni
Giacomo Leopardi, oltre ad essere un grande poeta, ha osservato e commentato esplicitamente molte parole della nostra lingua. Andrea Maltoni, dottoressa in filologia, in questo ciclo ci racconterà parole facendolo intervenire.
Alla fine della guerra, dopo un lungo viaggio di ritorno attraverso il Mediterraneo, solo pochi degli egineti che erano partiti per Troia poterono toccare di nuovo le sponde della loro isola natìa. Immaginate la felicità delle loro famiglie: ma con che cuore gioire mentre tutto il resto di Egina piange la perdita di figli, fratelli e mariti? Ecco allora che, rientrati tutti nelle proprie case, i più fortunati celebravano segretamente il ritorno dei propri cari con conviti e cene a cui nessun altro poteva partecipare.
Secondo Plutarco, da questo antico episodio era nata una festa, ancora viva ai suoi giorni, che celebravano alcuni abitanti dell’isola greca di Egina in onore di Nettuno: per sedici giorni essi mangiavano soli, in silenzio, senza alcun domestico che potesse servirli, e terminavano poi la festività con un solenne sacrificio finale. Tale pratica di mangiare in solitudine aveva dato origine al nome di coloro che prendevano parte alla celebrazione, i cosiddetti “Monofagi” di Egina.
Nella lingua greca infatti, la voce monophagìa - formata con la radice del verbo relativo al mangiare, phàgein, e con l’aggettivo mònos che vale come ‘solo, isolato, unico’ - indicava specificamente l’azione di mangiare soli.
A quanto ci racconta Leopardi, tale usanza era presso gli antichi considerata in mondo assolutamente negativo e il titolo di “monofago” veniva utilizzato persino a titolo offensivo, perlopiù con l’accezione di “egoista”:
Subito dopo aggiunge: “io avrei meritata quest’infamia presso gli antichi”.
In vari passaggi dello Zibaldone, egli racconta infatti della propria predilezione a trascorrere il momento dei pasti senza la compagnia né di altri commensali né di servitori. Con delle riflessioni che sembrano strizzare l’occhio ai testi di medicina ayurvedica, egli spiega come dall’alimentazione derivi gran parte del benessere non solo fisico ma anche mentale delle persone, e che dunque il momento dedicato al nutrimento dovrebbe essere vissuto da ciascuno con una certa consapevolezza, secondo i propri tempi e le proprie inclinazioni “e non secondo quelle degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare e ingoiare”.
Con la solita acutezza dalle tinte quasi sarcastiche, aggiunge poi come sia assurdo che proprio “quell’unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della favella hanno un’altra occupazione […] abbia da esser quell’ora appunto in cui più che mai si debba favellare”.
Sarà tuttavia perché questo tipo di usanza solitaria non ha preso molto piede nelle abitudini moderne che, ad un certo punto della sua storia, monofagia si trasforma: quel mònos, che in greco era riferito al soggetto dell’azione (colui che mangia è “solo”), si fa invece oggetto, e la monofagia diventa il nutrirsi di un unico alimento (o genere di alimenti).
Oggi si può sentir dunque parlare di monofagia in ambito biologico, quando ci si riferisce ad insetti e parassiti che vivono alle spese di un’unica specie vegetale (come la fillossera della vite o la mosca dell’olivo); oppure può dirsi di quel comportamento alimentare frequente nei bambini piccoli che si rifiutano di assaggiare cibi diversi dai soliti uno o due. Negli adulti si tratta di una vera e propria patologia che, protratta nel tempo, può causare gravi casi di malnutrizione.
Una parola che con la sua metamorfosi sa raccontare di abitudini che mutano e di culture in movimento, che ci ricorda di pensare alla lingua come ad un vero e proprio organismo vivente in continua trasformazione, che senza alcuno sforzo e con semplicità evolve nel tempo per adattarsi a luoghi, costumi e tradizioni.