Prëquechë
Dialetti e lingue d'Italia
pr’quèch
Significato Varietà linguistica: barese — Pèsca
Etimologia latino praecoqŭus, variante di praecox ‘precoce, primaticcio’.
- «Av’a jèss’ bòna assà… Nò na pr’quèch qualùngue» 'Dev’essere buona davvero… non una pesca qualsiasi.' (frase in barese)
Parola pubblicata il 19 Maggio 2025
Dialetti e lingue d'Italia - con Carlo Zoli
L'italiano è solo una delle lingue d'Italia. Con Carlo Zoli, ingegnere informatico che ha dedicato la vita alla documentazione e alla salvaguardia di dialetti e lingue minoritarie, a settimane alterne esploriamo una parola di questo patrimonio fantasmagorico e vasto.
Il nomi dei frutti, e oggi parleremo di quelli del genere Prunus (pesca, ciliegia, albicocca, mandorla) ci suggeriscono un parallelismo interessante tra gli incroci e le ibridazioni botaniche e gli incroci e le ibridazioni linguistiche. Questi alberi da frutto sono addomesticati da millenni e sono caratterizzati da una certa facilità d’innesto e di incrocio. Si trovano in moltissime varietà (dette cultivar), e in forme spesso botanicamente ‘ibride’, di ogni dimensione e colore. Queste piante, e i loro deliziosi frutti, sono state esportate verso l’Europa in tempo più o meno antichi, e con esse i loro nomi, che hanno conosciuto, come le piante, incroci e ibridazioni: i nomi dell’albicocca e della pesca, in particolare, hanno la caratteristica di un vero rompicapo linguistico-storico-geografico.
La nostra parola di oggi, in dialetto barese, come anche quella calabrese percocu, corrisponde all’italiano ‘percoca’, e significa ‘pesca’: etimologicamente è la praecoqua, cioè la ‘precoce’, ‘quella che matura presto’. Ma in realtà ancora prima della pesca, già alla fine della primavera, matura l’albicocca, a cui infatti in altri dialetti è riservata il nome di praecoqua (precoca in certi varietà abruzzesi, percocu in alcuni dialetti siciliani, e, con un suffisso diminutivo, biricocola in moltissime varietà italiane, da nord a sud). Già in questa ultima forma si sente il suono, o il sapore, del nome in lingua standard, cioè albicocca, che però, con questo al- iniziale ci fa sospettare un’origine araba (come al-chimia, al-gebra, al-col). E infatti a quanto pare la parola latina praecoquum è passata in greco come praikókion, e da qui in aramaico come bārqūqa, e da qui ancora in arabo come al-barquq (dove però ha assunto – o aveva fin dall’inizio, chi lo sa – il significato di ‘susina’, che è anch’essa una drupa del genere Prunus, ma un po’ meno precoce). Insomma una parola latina fa il giro di mezzo mediterraneo e torna in italiano in forma araba – irriconoscibile – col significato ibridato, da Prunus domestica ‘susina’ a Prunusarmeniaca ‘albicocca’.
Già, ‘armeniaca’. Infatti, in altri dialetti questi frutti non sono denominati a partire alla loro precocità, ma dalla loro provenienza geografica (vera o supposta: sappiamo bene che i nomi di alimenti o di ricette sono tutto meno che geograficamente precisi, dal grano turco alla zuppa inglese all’insalata russa) per cui la pesca è la “prugna persiana”, o persica (e infatti il nome scientifico è Prunus persica), e in molti dialetti si dice proprio così: persica, da cui anche l’italiano standard ‘pèsca’. L’albicocca invece è la “prugna armena”, o armeniaca, da cui il milanese mugnaga, il romagnolo mugnêga; altri dialetti hanno forme come armelin (veneto), armognan (piemontese), cioè, ancora ‘dell’Armenia’: anche in italiano esiste l’armellina (che è un venetismo) per indicare la mandorla, cioè il nòcciolo, d’albicocca o di pesca, amarognola per la piccola dose di cianuro che contiene (e che mio nonno bambino, gelosissimo, faceva mangiare a manciate al fratello minore sperando di toglierselo di torno). Infine alcuni dialetti, ad esempio pugliesi, hanno cresómmele, un grecismo in cui si riconosce la radice di creso- ‘oro’: l’albicocca è dunque la ‘mela d’oro’ (un po’ come il pomodoro, che, pochi lo sanno, nella sua forma originaria era di un colore più sul giallo che sul rosso).
Le società tradizionali avevano certamente un rapporto con la frutta molto diverso da quello che abbiamo noi oggi, e la consideravano una vera prelibatezza, e spesso una rarità ricercatissima: in un mondo che non conosceva lo zucchero (che fino al XII secolo non era noto in occidente, e fino all’800 era comunque costosissimo) i frutti maturi erano, insieme al miele e al mosto d’uva, praticamente l’unica occasione di gustare qualcosa di dolce. E poi la loro deperibilità, in assenza di refrigerazione e altre tecniche di conservazione, e quindi scarsa trasportabilità, confinava l’uso a periodi ristretti dell’anno e alle sole zone dove il clima ne consentiva la coltivazione. Se si aggiunge l’assenza di trattamenti antiparassitari che doveva limitare il numero di frutti in buone condizioni, davvero la prima albicocca, o la prima pesca matura precoce, all’inizio dell’estate, dolce e succosa, colta dall’albero, e non colta acerba e fatta maturare in una cella frigorifera di un supermercato lontano centinaia di chilometri, poteva sembrare una mela d’oro e far sognare ubertosi giardini di delizie nella favolosa Persia e o nella leggendaria Armenia.